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Uri Avnery
Yasser Arafat, l'uomo che ha guidato un popolo senza terra
15 Agosto 2005
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Chi è stato davvero Yasser Arafat. La testimonianza di un girnalista e saggista israeliano: la statura del profeta, dell'agitatore politico, del mediatore, dello statista che ha dato voce e coscienza al suo popolo, nelle terre e nello spirito dell'Antico testamento. Da il manifesto dell'11 novembre; l'immagine è la prima pagina del 12 novembre 2004

Ovunque venga sepolto al momento del trapasso, verrà il giorno in cui i suoi resti saranno trasferiti da un governo palestinese libero nei luoghi sacri di Gerusalemme. Yasser Arafat fa parte della generazione dei grandi leader sorti dopo la seconda guerra mondiale.

La statura di un leader non è determinata semplicemente dalle dimensioni dei risultati raggiunti, ma anche dalle dimensioni degli ostacoli che ha dovuto superare. Sotto questo aspetto, Arafat non ha rivali al mondo: nessun altro leader della nostra generazione è stato chiamato ad affrontare delle prove così crudeli, e a lottare contro tali avversità.

Quando apparve sul palcoscenico della storia, alla fine degli anni `50, il suo popolo era prossimo ad essere dimenticato. Il nome Palestina era stato sradicato dalla carta geografica. Israele, la Giordania e l'Egitto si erano divisi il paese tra di loro. Il mondo aveva deciso che non c'era nessuna entità nazionale palestinese, che il popolo palestinese aveva cessato di esistere come le nazioni degli indiani d'America - ammesso che fosse esistito davvero.

La palla tra i regimi arabi

All'interno del mondo arabo la «causa palestinese» veniva ancora citata, ma serviva solo come palla da rimpallare tra i regimi arabi. Ciascuno di essi cercava di appropriarsene per i suoi interessi egoistici soffocando brutalmente, allo stesso tempo, qualsiasi iniziativa palestinese indipendente. Quasi tutti i palestinesi vivevano sotto delle dittature e, nella maggior parte dei casi, in circostanze umilianti.

Quando Yasser Arafat, all'epoca un giovane ingegnere in Kuwait, fondò il «Movimento per la liberazione della Palestina» (le cui iniziali alla rovescia formavano il nome Fatah), egli intendeva prima di tutto la liberazione dai vari leader arabi, così da mettere in grado il popolo palestinese di parlare e agire autonomamente. Questa fu la prima rivoluzione dell'uomo che, nel corso della sua vita, ha realizzato almeno tre grandi rivoluzioni.

Era una rivoluzione pericolosa. Fatah non aveva una base indipendente. Doveva funzionare nei paesi arabi, spesso subendo persecuzioni spietate. Un giorno, ad esempio, l'intera leadership del movimento, compreso Arafat, fu gettata in prigione dal dittatore siriano del giorno, dopo avere disobbedito ai suoi ordini. Solo Umm Nidal, la moglie di Abu Nidal, restò libera e così fu lei ad assumere il comando dei combattenti. Quegli anni ebbero una influenza formativa sullo stile caratteristico di Arafat. Egli doveva destreggiarsi tra i leader arabi, metterli l'uno contro l'altro, ricorrere a trucchi, mezze verità e discorsi ambigui, sfuggire alle trappole e aggirare gli ostacoli. Diventò un campione mondiale di manipolazione. Così salvò il movimento di liberazione da molti pericoli nei giorni della sua debolezza, finché esso non poté diventare una forza potente.

L'emergente forza palestinese indipendente preoccupò Gamal Abd-al-Nasser, il capo egiziano che all'epoca era l'eroe dell'intero mondo arabo. Per soffocarla in tempo, egli creò l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e mise alla sua testa un mercenario politico palestinese, Ahmed Shukeiri. Ma dopo la vergognosa disfatta degli eserciti arabi nel 1967 e l'elettrizzante vittoria dei combattenti di Fatah contro l'esercito israeliano nella battaglia di Karameh (marzo 1968), Fatah prese il controllo dell'Olp e Arafat diventò il leader indiscusso dell'intera lotta palestinese.

A metà degli anni `60, Yasser Arafat cominciò la sua seconda rivoluzione: la lotta armata contro Israele. La pretesa era quasi ridicola: una manciata di guerriglieri male armati, non molto efficienti in questo, contro la potenza dell'esercito israeliano. E non in un paese di giungle impenetrabili e catene montuose, ma in un fazzoletto di terra piccolo, piatto, densamente popolato. Ma questa lotta impose la causa palestinese all'agenda mondiale. Va detto francamente: senza gli attacchi omicidi, il mondo non avrebbe prestato attenzione alla domanda di libertà dei palestinesi.

Il risultato fu che l'Olp fu riconosciuto come il «solo rappresentante del popolo palestinese», e trent'anni fa Yasser Arafat fu invitato a tenere il suo storico discorso all'assemblea generale dell'Onu: «in una mano ho un fucile, nell'altra un ramo di ulivo».

Per Arafat, la lotta armata era semplicemente un mezzo, nient'altro. Non un'ideologia, non un fine in se stesso. Gli era chiaro che questo strumento avrebbe rinvigorito il popolo palestinese e conquistato il riconoscimento del mondo, ma non avrebbe sconfitto Israele.

La guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973 causò un'altra svolta del suo atteggiamento. Egli vide come gli eserciti dell'Egitto e della Siria, dopo una brillante vittoria iniziale ottenuta grazie alla sorpresa, erano stati fermati e, alla fine, sconfitti dall'esercito israeliano. Questo lo convinse infine che non era possibile avere la meglio su Israele con la forza delle armi.

Perciò, immediatamente dopo quella guerra, Arafat cominciò la sua terza rivoluzione. Decise che l'Olp doveva arrivare a un accordo con Israele e accontentarsi di uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Due passi avanti, uno indietro

Questo lo mise di fronte a una sfida storica: convincere il popolo palestinese a rinunciare alla sua posizione storica di negazione della legittimità dello stato di Israele, e ad accontentarsi di un mero 22% del territorio della Palestina anteriore al 1948. Senza che fosse dichiarato esplicitamente, era chiaro che questo comportava anche la rinuncia al ritorno illimitato dei profughi nel territorio di Israele.

Arafat cominciò a lavorare a questo obbiettivo nel suo modo caratteristico, con tenacia, pazienza e stratagemmi, due passi avanti, uno indietro. Quanto immensa sia stata questa rivoluzione, lo si può vedere da un libro pubblicato dall'Olp nel 1970 a Beirut, che attaccava violentemente la soluzione con due stati (chiamata «il piano Avnery», perché io ero all'epoca il suo principale promotore.)

Giustizia storica vuole che si affermi chiaramente che fu Arafat a pensare l'accordo di Oslo, in un'epoca in cui Yitzhak Rabin e Simon Peres puntavano ancora sull'irrealizzabile «opzione giordana», cioè l'idea che si potesse ignorare il popolo palestinese e restituire la Cisgiordania alla Giordania. Dei tre premi Nobel per la pace, Arafat è quello che lo ha meritato di più.

A partire dal 1974, sono stato testimone dell'immenso sforzo messo in campo da Arafat per far accettare al suo popolo il suo nuovo approccio. Passo dopo passo, esso fu adottato al Consiglio nazionale palestinese, il parlamento in esilio, dapprima con una risoluzione che stabiliva di istituire una autorità palestinese «in ogni parte della Palestina liberata da Israele», e, nel 1988, con la decisione di istituire uno stato palestinese vicino a Israele.

La tragedia di Arafat (e nostra) è stata che ogni qual volta si avvicinava a una soluzione di pace, i governi israeliani si tiravano indietro. I termini minimi di Arafat erano chiari e sono rimasti immodificati dal 1974 in poi: uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza; la sovranità palestinese su Gerusalemme Est (compreso il Monte del Tempio ma escluso il Muro Occidentale e il quartiere ebraico); il ripristino del confine anteriore al 1967 con la possibilità di scambi limitati ed equivalenti di territorio; l'evacuazione di tutti gli insediamenti israeliani nel territorio palestinese e la soluzione del problema dei profughi d'accordo con Israele. Per i palestinesi questo è assolutamente il minimo, non possono fare rinunce ancora maggiori.

Il partner Yitzhak Rabin

Forse Yitzhak Rabin si avvicinò a questa soluzione verso la fine della sua vita, quando dichiarò in tv «Arafat è il mio partner». Tutti i suoi successori l'hanno rifiutata. Essi non sono stati disposti a rinunciare agli insediamenti ma, al contrario, li hanno allargati incessantemente. Hanno resistito a ogni tentativo di fissare un confine definitivo, poiché il loro tipo di sionismo richiede un'espansione perpetua.

Perciò essi vedevano in Arafat un pericoloso nemico e hanno cercato di distruggerlo con tutti i mezzi, ivi compresa una campagna di demonizzazione senza precedenti. Così Golda Meir («non esiste un popolo palestinese»). Così Menachem Begin («un animale con due zampe, l'uomo con i peli in faccia, l'Hitler palestinese», così Binyamin Netanyahu, così Ehud Barak («gli ho strappato la maschera dalla faccia»), così Ariel Sharon, che tentò di ucciderlo a Beirut e da allora ci ha sempre riprovato.

Nell'ultimo mezzo secolo, nessun combattente per la libertà si è trovato di fronte degli ostacoli così immensi come i suoi. Egli non ha dovuto confrontarsi con un odioso potere coloniale o una invisa minoranza razzista, ma con uno stato nato dopo l'Olocausto e sostenuto dalla simpatia e dai sensi di colpa del mondo. Da tutti i punti di vista militari, economici e tecnologici, la società israeliana è molto più forte di quella palestinese. Quando gli è stato chiesto di istituire l'Autorità palestinese, Arafat non ha preso il comando di uno stato esistente e funzionante, come Nelson Mandela o Fidel Castro, ma di pezzi di terra scollegati e impoveriti, le cui infrastrutture erano state distrutte da decenni di occupazione. Egli non ha preso il comando su una popolazione che vivesse sulla sua terra, ma su un popolo composto per una metà dai profughi dispersi in molti paesi e per l'altra metà da una società fratturata lungo direttrici politiche, economiche e religiose. Tutto questo, mentre la battaglia per la liberazione va avanti.

Avere tenuto insieme questo pacchetto e averlo guidato verso la sua destinazione in queste condizioni, passo dopo passo, è il risultato storico di Yasser Arafat.

«Lui è andato avanti»

I grandi uomini hanno grandi colpe. Una colpa di Arafat è la sua inclinazione a prendere da solo tutte le decisioni, specialmente da quando tutti i suoi collaboratori più stretti sono stati uccisi. Come ha detto uno dei suoi critici più severi: «Non è colpa sua. Siamo noi da biasimare. Per decenni è stata nostra abitudine scappare da tutte le decisioni difficili, che richiedevano coraggio e audacia. Dicevamo sempre: facciamo decidere Arafat!». E lui decideva. Come un vero leader, è andato avanti e il suo popolo lo ha seguito. Così ha affrontato i leader arabi, così ha iniziato la lotta armata, così ha teso la mano a Israele. Per il suo coraggio si è guadagnato la fiducia, l'ammirazione e l'amore del suo popolo, al di là delle critiche.

Se Arafat dovesse morire, Israele perderà un grande nemico, che sarebbe potuto diventare un grande partner e alleato. Con il passare degli anni, la sua statura crescerà sempre di più nella memoria storica. Per quanto mi riguarda: lo rispettavo come patriota palestinese, lo ammiravo per il suo coraggio, capivo le costrizioni con cui lavorava, vedevo in lui il partner per costruire un nuovo futuro per i nostri due popoli. Ero suo amico.

Come dice Amleto di suo padre: «Egli era un uomo, preso tutto insieme, di cui non vedrò un'altra volta l'uguale».

Traduzione di Marina Impallomeni

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