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Giancesare Flesca
Arafat. Sette vite vissute sognando lo Stato della Palestina
15 Agosto 2005
Altre persone
Un profilo del grande leader di palestinesi: dell'"l'unico leader laico capace di conquistare uno Stato per il suo popolo". Un rritratto pieno di chiaroscuri dello statista che è riuscito a rendere visibile, e protagonista, un popolo che il mondo aveva dimenticato e rinchiuso nei lager. Da l'Unità dell'11 novembre 2004

Lasciando l'ultima delle sue sette vite così, in punta dei piedi e per di più in esilio, Yasser Arafat ha fatto ancora una volta la cosa giusta per il popolo palestinese. La sua presenza nella prigione della Muqata a Ramallah aveva negli ultimi anni rappresentato, che lui lo volesse o no, un ostacolo per ogni tentativo di pace con Israele. E soprattutto aveva impedito l'emergere di una nuova classe dirigente palestinese: finché il raìs era ancora vivo, l'unico vero capo era lui. Gli uomini del suo entourage non nascondevano il disagio per questa situazione, ma poco potevano fare. Per il suo popolo, anche per i palestinesi schierati con leader e organizzazioni diverse dalle sue, lui era un'icona della causa tanto potente che definirlo mr. Palestine, come facevano gli anglosassoni, appariva quasi inadeguato al ruolo quasi sacrale che in sessanta dei suoi settantacinque anni di vita era riuscito a conquistarsi fra la sua gente e fra la gente dei paesi arabi, compresi quelli i cui governi non lo amavano, anzi lo temevano e lo pagavano senza troppe chiacchiere per tenerlo il più possibile lontano.

Arafat, non dimentichiamolo, è stato l'unico leader laico capace di conquistare uno Stato per il suo popolo: non sembra giusto che se ne vada senza avere avuto il bene di vederlo nascere compiutamente. E tuttavia se lo Stato di Palestina nascerà davvero, questo si dovrà in parte al fatto che lui non ci sia più, che la sua bandiera sia stata ammainata per sempre. Nel 2002, di fronte all'inviato del Washington Post, aveva recitato compunto la sua preghiera: «Per favore, Signore Dio, lasciami l'onore di essere uno dei martiri per la santa Gerusalemme». Allah non lo ha accontentato. Ma è giusto che il suo popolo lo consideri comunque un martire della causa palestinese perché in effetti questo è sempre stato, nel bene come nel male.

Non è un caso se il suo arcinemico israeliano, Sharon, non vuole che venga sepolto a Gerusalemme. Durante una polemica di molti anni fa, a chi sosteneva che egli era nato il 24 agosto del 1929 al Cairo, lui replicava con estremo vigore di essere nato proprio quel giorno lì, ma a Gerusalemme. Tutto ciò aveva molto senso per lui perché durante tutta la sua vita ha gridato che Gerusalemme doveva essere la capitale dello Stato palestinese, magari una capitale in condominio con gli israeliani, ma comunque la capitale. «Chiunque rinuncia ad un solo metro di Gerusalemme non è né un arabo né un musulmano», aveva tuonato ancora nel 1993, aumentando l'irritazione di Sharon e di tanti israeliani nei suoi confronti.

Dove che sia nato, Arafat viene -questo è accertato- da una cospicua famiglia di commercianti di Gerusalemme. A quattro anni perde la madre, a 15 il padre lo manda a studiare nel cuore della cultura araba, cioè al Cairo. Nella capitale egiziana a quei tempi emergevano molti fermenti, da quelli panarabi che in seguito Gamal Abdel Nasser avrebbe predicato con successo, ma anche dal nascente integralismo religioso incarnato allora dai «Fratelli musulmani». Arafat assorbe tutto, ma il suo pensiero dominante va alla Palestina. Dopo la nascita di Israele nel 1948, la sua famiglia aveva dovuto trovare rifugio a Gaza. Lui studia ingegneria (riuscirà anche a laurearsi) ma quando nel 1956 scoppia la crisi di Suez fa parte con le brigate palestinesi dell'esercito egiziano, col grado di sottotenente. Nello stesso anno fonda al Fatah, l'organizzazione che resterà «sua» per i molti anni a venire, comincia a svolgere azione clandestina, gli egiziani, per niente grati dei suoi trascorsi militari, lo mettono in galera. Ci resta poco, poi si trasferisce in Kuwait, dove trova il fantasma dell'Olp, un'organizzazione nelle mani dei paesi arabi e di vecchi militanti ormai a riposo. Lui e altri capi palestinesi più radicali di lui come Mayef Hawatmeh e George Habbash partecipano alla guerra dei sei giorni. Quella guerra fu persa, ma la sconfitta permise ad Abu Ammar -così si chiamava allora Arafat- e agli altri duri di prendersi l'Olp. Così Arafat ne diventa presidente nel '69, una carica che manterrà continuamente nel corso degli anni, nonostante il fatto che le sue scelte siano state spesso contestate, anche vivacemente, da una parte dei suoi seguaci. Lo hanno rimproverato i politici più maturi per l'adesione al terrorismo che lo accomuna agli altri due «giovani leoni».

Dal ‘67 in poi sono anni brutti. Israele occupa la Cigiordania palestinese e la striscia di Gaza, lasciando intendere che mai restituirà quei territori. Il ricorso al mitra, ai sequestri, ai dirottamenti aerei sembra a molti palestinesi inevitabile. Probabilmente per non venire scavalcato dalla sua sinistra Abu Ammar si associa a quella politica, ma non la condivide fino in fondo. Il passato terrorista gli resterà comunque incollato addosso per tutta la vita, e vanamente lui cercherà di scrollarselo dalle spalle. Nel 1970 proclama ancora una volta al Washington Post: «L'obbiettivo della nostra lotta è la fine di Israele, e su questo non possono esserci compromessi». Questa linea gli lascia aperti i rapporti con i paesi arabi, che nel 1974 a Rabat definiscono l'Olp come «unico rappresentante del popolo palestinese» ma lo fa apparire sotto una luce sinistra in Occidente. Arafat lo sa benissimo e lavora per portare a piccoli passi la sua organizzazione lontano da una tale sciagurata deriva. Pochi gli credono ma alla fine lui otterrà dalla sua gente che la clausola statutaria dell'Olp che prevedeva come prima cosa l'eliminazione dello stato ebraico venga ritirata e sostituita da un implicito riconoscimento di Israele. Da lì spiccherà il volo per un negoziato duro che passerà da Madrid e da Oslo per approdare a Washington nel '94 quando stringerà la mano di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres, accomunati nello stesso anno dal Nobel per la Pace.

Ma mentre a livello politico si svolgono negoziati e intrallazzi, Arafat assume in qualche modo l'immagine del pastore dei suoi connazionali. Durante il famoso settembre nero del 1970, quando re Hussein di Giordania decide di chiudere i conti con gli esuli palestinesi divenuti troppo ingombranti prendendoli a cannonate, Arafat è con loro, fugge da Amman vestito da donna. La dirigenza dell'Olp si trasferisce temporaneamente a Tunisi. Implacabili come sempre i caccia israeliani andranno a bombardare anche quegli edifici, nella speranza di colpire in primo luogo Arafat. Ma l'uomo ha veramente sette vite, sopravvive, si trasferisce con la sua gente in Libano, dove i profughi palestinesi mettono in crisi il precario equilibrio politico del paese e vengono ricompensati nel 1976 col massacro di Tel at Zatar dove i falangisti (il braccio militare dei cristiani maroniti), con la complicità dei falsi amici siriani e perfino del gruppo dissidente palestinese di As Saiqa, sparano senza ritegno sui profughi, donne e bambini compresi. Arafat scampa a questo massacro come era scampato nel '73 ad una bomba esplosa nel suo ufficio che uccise tre dei suoi principali collaboratori. Quando i palestinesi cominciano ad allargarsi troppo nel Libano (e Arafat non li dissuade, anzi) Ariel Sharon trova nel 1982 il giusto pretesto per scavalcare le frontiere libanesi arrivando fino a Beirut ed oltre e macchiandosi, ancora con la complicità dei falangisti, degli orrendi massacri di Sabra e Shatila. Ma Sharon cerca lui, l'uomo diventato per il vecchio generale un'idea fissa. Si racconta che il 30 agosto uno dei tiratori scelti israeliani riesca ad inquadrare Arafat nel suo mirino. Sharon, chissà poi perché, non dà l'ordine di fare fuoco.

Certamente Allah, pur non essendo Arafat uno scaccino, ha per lui una certa simpatia. Come si spiega altrimenti che due attentati contro di lui falliscano, poi gli succeda di cappottare in macchina sulla via di Bagdad uscendone senza un graffio, sia addirittura l'unico superstite di un incidente che carbonizza il suo aereo. E quando nel 1994 ritorna in Palestina come capo dell'Autorità Nazionale palestinese, la sua vita si fa sempre più difficile. Ai tradizionali avversari come Mayef Hawatmeh o George Habbash si aggiungono i gruppi dissidenti di Abu Nidal e Ahmed Jibril, entrambi finanziati dalla Siria che non vede di buon occhio la nascita di uno stato palestinese organizzato democraticamente ai suoi confini. Poi ci sono gli integralisti di Hamas, coi quali Arafat riesce però a mantenere aperto un canale di comunicazione, e gli altri gruppi jihadisti che si votano al martirio kamikaze. Abu Ammar da una parte li tira per la giacchetta, dall'altra sfrutta politicamente con gli israeliani il terrore che essi provocano e del quale, va detto, lui non è responsabile. Di altre cose sono responsabili lui in prima persona e tutto il suo entourage. I soldi che continuano ad arrivare come sempre dai regimi arabi sotto botta vengono amministrati in maniera clientelare, molti militanti diventano imprenditori e affaristi, il raìs lascia fare convinto che tutto questo non conti poi molto. E invece conta soprattutto a Gaza, dove Hamas, oltre che spedire kamikaze in Israele, intraprende tutto un lavoro di bonifica sociale e di solidarietà che riluce in contrasto con le miserie dei territori amministrati esclusivamente dall'Autorità Nazionale.

E poi non mancano gli errori politici più evidenti, come l'appoggio dato a Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, il Desert storm, quando contro il tiranno di Baghdad sono schierati non solo gli Stati Uniti ma anche qualcuno fra gli interlocutori privilegiati della diplomazia di Arafat come la Comunità europea e molti stati moderati. Il presidente palestinese non è contento dell'iniziativa irachena di invadere il Kuwait, visto che la violazione della sovranità territoriale è proprio quello di cui i dirigenti palestinesi accusano da sempre Israele,in più sa di essere inviso a Saddam al quale si deve fra l'altro l'uccisione di Abu Iyad, uno dei suoi principali collaboratori. Ma su ogni ragionamento politico prevale in lui il vecchio capopopolo, i campi profughi palestinesi sono pieni di ritratti di Saddam Hussein, le «sue» masse stanno tutte con l'uomo di Baghdad e Arafat non riesce a tirarsi indietro. Tutto questo gli costerà in termini di credibilità e di autorevolezza, ma Allah gli vuole bene, l'errore viene dimenticato presto, soffocato dai clamori dell'Intifada che Arafat sponsorizza quasi in pieno.

Come a riscattare il suo errore, un anno dopo Desert storm sposa una palestinese cristiana, Suha Tawil, e ne fa nascere la figlia a Parigi, fra i brontolii degli ulema. Gli stessi brontolii che hanno accompagnato la sua decisione di curarsi all'ospedale di Percy, dove è morto lontano dalla sua Palestina. E dopo aver vissuto sette vite spera che almeno gli consentano di riposare per sempre in un fazzoletto di terra piccolo, quanto basta a venire coperto dalla sua kefiah, un simbolo che per più di mezzo secolo ha saputo portare sempre con dignità e perfino con una qualche ironìa.

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