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Sandra Tsing Loh
Consumati dallo shopping
13 Luglio 2005
Archivio 2004
E' proprio vero: gli americani (quelli intelligenti) non sanno più che farsene dei centri commerciali. E gli investitori quindi hanno trovato una soluzione: rifilarli a noi. Una recensione da Atlantic Monthly online www.theatlantic.com , giugno 2004 (fb)

Consumati dallo shopping [recensione a The Call of the Mall, di Paco Underhill, Simon & Schuster 2004], traduzione di Fabrizio Bottini

”Le città stanno diventando, sempre di più, una lontana provincia abitata dai ricchi, da chi è senza figli, o dai poveri. Io amo le città. Ma l’America non ci ha abitato per molto tempo ... Se vuoi vedere davvero le famiglie a varie generazioni del ceto medio americano, devi andare al centro commerciale”.

Ma, potremmo chiedere all’autodefinito “secchione della ricerca” Paco Underhill, che sostiene questa tesi ne Il Richiamo del Centro Commerciale ( The Call of the Mall): vogliamo davvero vederle? La più recente incursione di Underhill nel ricco, variegato, speziato campo dell’antropologia commerciale (la prima è stata Perché compriamo: la scienza dello Shopping, del 1999), ci pone alcune questioni: siamo davvero interessati a passare un intero libro dentro al centro commerciale? Perché hanno un’architettura tanto brutta? E cos’è, esattamente, un Aqua Massage? Le risposte di Underhill si rivelano affascinanti (la maggior parte), e quando non lo sono, sono comunque noiosamente e squisitamente spoglie, noiosamente esistenziali, proprio come il centro commerciale.

Per chi sostiene che un pasticcino Cinnabon è solo un Cinnabon, Underhill apre il suo viaggio nel mall invocando lo spirito dello storico francese Daniel Roche, autore della Storia delle cose banali “Studiare le persone mentre si radunano a comprare e vendere cose non è proprio una cosa totalmente frivola o leggera”. Scrive:

Pensate alla storia della nostra specie, una gran parte della quale è stata stimolata da mercanti o loro emissari che viaggiavano fino ai confini del pianeta, qualche volta con grandi rischi, per riportare indietro cosette da vendere agli altri. Come può testimoniare qualunque scolaro, l’avventura nei tempi antichi c’entrava sempre con la via delle spezie, e i traffici di seta, metalli preziosi, incenso, mirra, polvere da sparo e pellicce.

Secondo Underhill, la storia del commercio è una grande avventura, che entra in una nuova fase con gli scintillanti empori delle città americane in crescita.

I principi mercanti erano uomini del diciannovesimo secolo, spinti dall’ambizione, dalla forza, dalla voglia di affermarsi secondo il codice materiale, in pietra e mattoni, dell’epoca. I loro negozi erano i loro alter-ego, e questi titani del commercio avevano tutti grossi complessi psico-edilizi. I grandi magazzini dell’epoca portano i nomi del proprietario: Gimbel, Macy, Wanamaker, Neiman Marcus, Marshall Field.

A prima vista sembrava che la cultura suburbana dell’automobile potesse innescare un’altra eccitante fase di questo lungo viaggio. Dopo tutto, fin dai primi passi a Edina, Minnesota, nel 1956, il mall si è dimostrato una meravigliosa invenzione per il commercio. Negli anni del boom, i ’70 e ’80, si apriva un centro commerciale da qualche parte degli Stati Uniti ogni tre o quattro giorni. Alcuni studi ipotizzano che il 30 per cento degli adulti che vivono in una zona con il tipo di centro commerciale descritto da Uphill nel suo libro, ci sono stati almeno una volta ogni tre mesi. I malls attualmente coprono il 14 per cento del commercio totale degli Stati Uniti (esclusi auto e benzina): circa 308 miliardi di dollari di vendite annuali.

Più significativo di queste cifre e dati, è il modo in cui il centro commerciale è entrato nelle viscere, nella psiche della famiglia americana. Cos’è dopotutto una famiglia, se non un insieme di persone non proprio totalmente indipendenti, non proprio totalmente mobili? E quale ancoraggio più sicuro, per le famiglie, di una grossa anonima scatola a temperatura controllata? E non si tratta solo degli adolescenti “topi da centro commerciale”, naufraghi al multisala i venerdì sera perché non possono guidare. Sono i branchi di anziani che hanno iniziato programmi di “passeggio da mall” su consiglio del medico che temeva potessero scivolare sulla neve o sul ghiaccio. Sono le mamme di bambini piccoli che tentano di ammazzare il tempo (perché i clienti del centro commerciale letteralmente fanno una spesa più lenta dei loro corrispondenti urbani, e sono più pazienti in fila, al punto che spingere un passeggino e un paio di pupi a comprare un nuovo mestolo da Lechter’s può riempire un intero, sereno pomeriggio).

Il problema, sostiene Uphill, è che c’è del marcio, sin nel DNA del centro commerciale. I proprietari sono ben lontani dal voler venire incontro creativamente ai nostri bisogni di acquisto: sono semplicemente operatori immobiliari, che tentano di massimizzare ogni dollaro di rendita, in gran parte minimizzando sulle spese. Il che non è una bella cosa. Per cominciare, l’architettura che ne risulta è un orrore (“Un grosso muro con un piccolo buco da topo”, è il modo in cui viene descritto da un progettista di grido del settore). E ora questi esterni spogli e senza vita stanno via via decadendo, con inquietanti stranezze quasi alla Michael Jackson. Ad esempio:

Mall of America, il più grande degli Stati Uniti e la più importante attrazione turistica di tutto il Minnesota, può anche essere sembrato bello sul tavolo da disegno. Ma è invecchiato male sin dal giorno dell’inaugurazione nell’agosto 1992. Si vedono macchie sull’esterno dell’edificio, e l’erba ha cominciato a spuntare attraverso l’asfalto nei parcheggi. È enorme e sgraziato. Non puoi immaginare che si lascino Disney World, o la Statua della Libertà, a degradarsi in questo modo. E questo centro commerciale ha più visitatori di Disney World, Graceland, e il Grand Canyon messi insieme.

E ancora:

La prossima volta che andate in un centro commerciale, invece di entrarci direttamente, provate a fare una passeggiata lungo il perimetro dei fabbricati. Sarete piuttosto soli in quel posto, su una stretta striscia di marciapiede – sempre che ce ne sia uno, di marciapiede: in molti centri non c’è – magari con una guardia della vigilanza a tenervi compagnia ... Ci saranno quasi di sicuro dei cespugli, accuratamente potati, ma è verde del tipo più banale. Nessuno ha mai pensato che ci avresti fatto caso troppo da vicino. L’unica cosa che conta è che sia di colore verde.

E questo disorientamento, questa sconnessione dalla forma dello spazio, raggiunge il massimo all’interno del centro commerciale, che Underhill descrive essere, come la televisione, un “ambiente totalmente artificioso, che cerca di proporsi come vero riflesso di quello che siamo, e di cosa vogliamo”. C’è una galleria video, una parete da roccia, un cortile per la ristorazione, e “un chiosco Cinnabon, quattro chioschi di dolciumi, tre chioschi di biscotti, tre di gelati, e nemmeno un posto, da nessuna parte, per comprarsi una mela”. È una piazza di città dai colori pastello – o almeno vuole assomigliare a una piazza di città – che a dire il vero respinge qualunque onesto senso civico. (molti Stati hanno dovuto proibire per legge alcune forme di libertà di parola che non favorivano il commercio, negli anni questi disturbi hanno incluso: candidati alle elezioni, il Ku Klux Klan, gli attivisti anti-guerra che distribuivano volantini). Underhill si sforza di stabilire un rapporto fra centri commerciali e razzismo, visto che pochissimi sono vicini a mezzi di trasporto pubblico.

Ma per il lettore, il vero contributo innovativo di Call of the Mall al tema – anche se non proprio la cosa più piacevole – non è l’analisi sociologica, quanto lo choc dell’identificazione personale che Underhill provoca quando seziona al laser alcuni inesplorati momenti della vita moderna. Solo uno specialista del commercio può sintonizzarsi in questo modo alla condizione umana in tutta la sua squallida, informe noia. Ancora evocando lo spirito di Daniel Roche, Uphill traccia le violente trasformazioni nel nostro panorama emozionale, quando cerchiamo un parcheggio e troviamo qualcosa di meglio (più vicino al lato di Sears) o qualcosa di peggio (più vicino a quello di Bloomingdale) di quello che ci aspettavamo. Una volta all’interno, si infuria:

Puzzano, le mappe? Nel corso dei miei studi sulla gente al centro commerciale, ho cronometrato quanto tempo le persone passano guardando quelle grossi cartelli illuminati con le indicazioni. In uno di questi casi, la media era di ventidue secondi. È un tempo molto lungo, per studiare una mappa ... Le piantine nella maggior parte dei centri commerciali sembra siano state disegnate per gli elettricisti: come guide all’allacciamento.

Solo Underhill poteva impiegare tempo ad osservare come:

Gli scippi, per quanti ne succedano al centro commerciale, avvengono nei bagni, che sono di solito nascosti giù in fondo a corridoi solitari lontani dai passaggi principali. Di fatto, quello è il miglior modo di trovare il bagno in un centro commerciale sconosciuto: guardatevi attorno a cercare l’angolo meno invitante, quello più angusto, dove l’illuminazione è più fioca. Visto? C’è proprio un passaggio del genere che si stacca dal corridoio centrale. È un po’ buio e inospitale: se il centro commerciale fosse una città, questo sarebbe un vicolo sul retro. Su, entriamo!

E infine:

C’è qualcosa di felliniano nella sezione cosmetici di un grande magazzino. Te ne stai lì un sabato mattina, vestito col solito guardaroba standard casual suburbano, a guardare una stanza che brilla di candelieri, popolata da commesse truccate e acconciate in modo sicuramente adatto ad una prima della Scala. Le loro facce sono maschere di pelle pallida, senza pori, le labbra rosso rubino, occhi bistrati degni di un teatro kabuki. L’acquisto di cosmetici è una forma d’arte pubblica, e privata. Non è come il massaggio, ma è un gesto quasi altrettanto intimo fra adulti consenzienti.

E qui, forse, sta l’indizio più rivelatore dell’assurdità commerciale. Sopra la cassa, ci indica Uphill, tipicamente troverete una gigantografia di Elizabeth Hurley, da una pubblicità che avete visto su Vanity Fair, ora ingrandita e inanellata da luci splendenti. Giù in basso, il resto della specie femminile ciabatta attorno, appena in grado di trovarsi uno specchio decente, con una illuminazione decente, per provarsi il rossetto.

Uphill cita un altro esperto di commercio:

“Le compagnie non progettano questi grandi magazzini per metterci al centro il cliente. Per loro, la star al centro del banco di vendita è la supermodella della campagna pubblicitaria. Poi, all’ultimo posto, sta il cliente. È del tutto sbagliato”.

Ah, l’eterno gap fra Madison Avenue e, se non esattamente il Minnesota, almeno quel Minnesota che si annida nelle nostre anime. E parlando di gap, sono ancora perseguitata da quella pubblicità televisiva di parecchi anni fa, delle ballerine di Gap. Era la promessa di Gap, in trenta secondi: mettiti addosso questi magici pantaloni kaki, e conoscerai la libertà da tutte le preoccupazioni della vita: il tuo spirito galleggerà, sari libera dalla forza di gravità, leggera come una fata! Considerate ora l’esperienza Gap: armeggiare con pantaloni troppo stretti in un camerino di prova troppo stretto, nel bel mezzo di tre ore di viaggio verso un centro commerciale opaco, invecchiato, coi bagni spogli e foschi, e un parcheggio orribile.

Dire che Uphill è lo Shakespeare del suburbio non significa che la Città – o almeno la sua immagine – sia assente da Call of the Mall. A ben vedere, i paesaggi dei centri commerciali riflettono e rifrangono in modo obliquo quelle che sembrano essere le effimere, romantiche impossibilmente distanti memorie collettive della Città. Ne è testimone il negozio degli animali domestici, una piccola zona dedicata alle forme di vita inferiori – e ai loro escrementi – ben familiari a chi fa compere in città, ma totalmente assenti dal centro commerciale. E mentre gli adolescenti lanciano un frisbee in un ambiente simil-naturale da gioco all’ultimo piano, una ragazza medita nostalgica: “Non so se siete mai stati a Washington Square a New York ... ma ecco c’è questo parco, e hanno questi tavoli con, tipo, delle scacchiere disegnate sul piano..”.

Poi c’è la vetrina di Tiffany, piccola e cubica, che mostra solo una cosa: una magnifica foto in bianco e nero del Central Park in un giorno di pioggia, un diorama in miniatura che coglie parte della nostra – almeno di qualcuno – vita passata. Uphill dice “Vende il fascino di Central Park sotto la pioggia, e del vicino Tiffany, alla gente che passeggia per il centro commerciale”. (“Hey”, fa il suo compagno di spese, “c’è una macchia di sporco sul vetro”).

E per il futuro, del centro commerciale?

Oggi, con la maggioranza dei malls americani con più di vent’anni, il problema di cosa fare dei complessi che invecchiano si presenterà presto. Se gli edifici in sé avessero qualche tipo di valore, potremmo probabilmente restaurarli o tutelare quelli che lo meritano. Restauriamo e dedichiamo ad usi diversi molte strutture collettive, come ex uffici postali, alberghi, biblioteche, o anche chiese. Ma la maggior parte dei centri commerciali sono troppo brutti e banali per meritare uno sforzo simile. Sono stati progettati per funzionare, niente di più, e quando non servono più allo scopo devono essere abbattuti e sostituiti con ... non saprei con cosa. Magari qualcosa di anche peggiore.

Penso ai fantasmi commerciali del passato e del futuro nella mia Los Angeles. Penso alla nostra Sherman Oaks Galleria – giusto: quella Galleria resa famosa in “Valley Girl” – che non c’è più. Mi torna in mente la mia vita da adolescente, negli anni Settanta in Sud California. Sento ancora pulsare eccitante l’età adulta incipiente, mentre con la mia migliore amica, Mary Robertson, schizzavamo sulle freeways nella sua piccola Chevrolet Chevette. Posso ancora visualizzare tutti i cartelli bianchi e verdi delle rampe di uscita, tutte le palme stentate, i centri commerciali che si allargavano poco più in là come grosse scatole rosa piene di promesse. Come il trucco finto di Barbie, anche il centro commerciale offriva una visione di affascinante, cosmopolita esistenza adulta, che ora stava lì, tanto più a portata di mano. Invece che ad una vera Città del Peccato, io e Mary facevamo visite impulsive e audaci alla Cheesecake Factory, dove l’inero mondo dei sensi stava lì davanti a noi in più di ventuno sapori: Amaretto, Grand Marnier, piña colada.

Oggi il mio mondo commerciale sud californiano è una griglia di Target (classico), Tarjhay (verso il centro) e naturalmente Targhetto (con il piazzale del parcheggio malmesso, dove ti trovi a pensare, Dunque è qui dove gli appartenenti alle bande criminali comprano i loro contenitori di vetro Tupper: i miglior per metter via le loro importanti cose da banda criminale). È una miscela colorata di centri lungo la strada che annunciano pulizia a secco in cinque lingue diverse, e quasi sempre espongono un “USA #1 DONUTS”. Penso alla prima visita della mia sessantaduenne matrigna mongola da Van Nuys Costco: come i suoi occhi si spalancavano allarmati, ed eccitati, alla vista di una torre di tovagliolini Bounty alta quindici metri, e come le sue scarpe bianche da tennis brillavano e sbattevano mentre correva.

Nota: il confronto, come ovvio per chi ha già letto il pezzo, è quello con l'articolo economico proposto da Eddyburg sulla prossima invasione, in Italia, proprio di quei grandi centri commerciali super-regionali di cui qui si dice peste e corna, da International Council of Shopping Centers (fb)

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