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Mario Sesti
Ingrao: "il mio chaplin". Intervista al dirigente comunista che compie oggi novanta anni
1 Aprile 2005
Pietro Ingrao
L’umanità del grande dirigente comunista, mai vincitore e mai vinto, emerge da questa intervista, da la Repubblica del 30 marzo 2005

E´ vero che lei ha dovuto rinunciare alla sua passione per il cinema a causa della lotta contro il fascismo? E´ vero che da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia è stato tirato dentro la battaglia politica "a forza"?

«C´era stato l´attacco alla repubblica spagnola e da quel momento ho iniziato a vivere l´esperienza dell´iniziazione alla politica antifascista. Quello è stato per me un crinale decisivo. Mi ricordo quel luglio terribile del ´36, quando è scoppiata l´insurrezione di Franco, e abbiamo visto l´avanzata del fascismo che oramai si dispiegava ovunque. Sono cominciati degli anni terribili e a quel punto, per usare una frase di rito, sono cambiati i libri sul mio tavolo. Io che avevo fatto il primo anno di studio di cinema al Centro Sperimentale, e volevo fare il regista, ho ceduto - ma ceduto non è davvero il verbo giusto - alle pressioni dei miei compagni che già erano più avanti nella cospirazione. Uno fra tutti, Antonio Amendola. Sono apparsi altri libri, è cominciato il mio impegno nella politica e allora il cinema è rimasto un amore».

Quando è che ha un po´ lasciato da parte il cinema e non l´ha più seguito con la stessa assiduità? Per quale ragione?

«La vecchiaia. Io sono molto, molto anziano. Ma ho scritto più volte di cinema e presumo di capire più di cinema che di politica».

Se dovesse citare i film che più amato, i pezzi di cinema che più le sono rimasti impressi e che più hanno contato nella sua vita, quali film o autori le verrebbero in mente?

«Uno, prima di tutti. Chaplin. E un film soprattutto: Luci della città. Non è forse il più bel film di Chaplin, forse Tempi moderni è più bello, però Luci della città ha un finale straordinario: quando la ragazza cieca ritornata guarita dall´America, rincontra il vagabondo che passa per la strada, ridotto proprio male. Lui resta colpito da questa apparizione improvvisa e lei lo riconosce, ma non con gli occhi, perché non l´ha visto mai. E come? Spolverando, toccando leggermente la giacca del vagabondo. Non c´è nulla di parlato ma l´intera, breve sequenza, mi sembra di una estrema, grande allusività. In pochi, muti attimi, passano tante domande sulla vita e una capacità del cinema di essere cinema assoluto, puro, senza una parola. Poi, per il cinema italiano, mi viene in mente Paisà. L´episodio finale, quello della lotta partigiana nelle paludi. Anche lì, non c´è quasi parola, i personaggi non si parlano, avviene tutto per cenni, in uno sterminato silenzio. Non solo mi sembrava il più bello di tutto il film, ma una delle cose migliori di Rossellini: un pezzo di cinema straordinario che mi riportava a questa idea del cinema come immagine, e poi insomma, come a dire, parlava della guerra senza parlarne. E´ uno dei momenti del cinema neorealista che ancora stavano parecchio dentro l´estetica del cinema che avevo in testa io, prima dell´avvento del sonoro.

«E poi il finale di Ladri di biciclette, quando il personaggio, dopo il furto della bicicletta, viene assediato dalla folla e lo vogliono ammanettare. C´è quella scena molto bella in cui il padrone della bicicletta lo guarda in faccia come a dire "ma questo è un poveraccio come me". Allora lo lasciano andare. E c´è una sequenza brevissima, in cui il padre e il fanciullo si danno la mano e rimangono soli con tutto il mondo intorno. Un pezzo di efficacia straordinaria: che un po´ anche mi sorprese, all´epoca, perché, sapevo che De Sica aveva tante qualità ma non sospettavo possedesse quella vena struggente. Quello, diciamo così, in un museo delle cose più belle del cinema, io lo ritaglierei e poi lo metterei in un quadro come icona, insieme a Luci della città e a Paisà».

Qual è l´ultimo film che ha visto in sala dal quale è rimasto colpito?

«Quel film di quel regista americano sulla guerra in Giappone, come si chiama. La sottile linea rossa, di quel regista americano».

Terrence Malick

«Sì. C´era una bellezza singolare che non era tanto nella storia, anzi, la rappresentazione dei soldati mi sembrava piuttosto usuale. Non era quello che determinava la qualità del film. Però nella rappresentazione del paesaggio, c´erano dei pezzi che mi sembravano straordinari. C´è tutta una parte del film cui si vedono solo le vampe delle cannonate e poi il modo in cui fa vedere quelle colline presso cui si svolge tutta la battaglia.

«Ecco, lì c´è un´idea, una rappresentazione della guerra che mi sembra di grande forza. E anche, direi, più semplicemente, di grande malinconia poetica. Anche se, quando poi fa parlare i personaggi, il film diventa più convenzionale. Però l´uso di quel sonoro e quelle immagini mi sembrarono davvero notevoli».

Pensa ci sia un rapporto tra il cinema e la poesia (che è un´altra sua grande passione)?

«Sono due linguaggi diversi anche se sono tutti e due riconducibili a quell´idea che chiamiamo arte. Poi cosa sia l´arte, ci sono biblioteche intere che se lo chiedono. Però i due linguaggi sono molto diversi, mi sembra. La poesia, diciamo così, è una musica più segreta, più sottile. Tornando a quell´episodio di Luci della città, insomma, è più importante lo sguardo di Chaplin o il modo con cui la mano di lei tocca la giacca del vagabondo, la capacità del cinema di possedere un´allusività molto forte. Che spesso non è riconosciuta, perché il cinema viene letto come copia del reale. Sembra che la sua qualità stia nella quantità di realtà che può riprodurre. Invece è una bugia, perché non è così. Per me, almeno. Però la poesia ha qualcosa di diverso, qualcosa in più, che è la musica. Mentre nel cinema, tutto sommato, anche nelle scene più intense, più raccolte, più intime, beh, noi quello che vuol dire lo vediamo. Più che ad un verso, corrisponde ad un parlare scandito. Qualcosa che si vede, qualcosa che quasi lo tocchi con la mano».

Senta, le posso chiedere se c´è un film che più di altri ha raccontato il mondo della politica in maniera più autentica? Lei, spesso, quando ha parlato della politica, ha parlato della sua fatica, la fatica di dover comunicare, di dover parlare, di dover incontrare persone, eccetera. Per esempio, lei ha scritto di avere una grande ammirazione per le persone che sanno parlare a tantissime altre e nella sua vita le è capitato spesso di incontrarne e di essere lei stesso una di queste persone. Questo piacere o questa fatica della politica, le sembra siano state raccontate in un film?

«Mi pare proprio di no. Ho parlato da qualche parte di qualcosa che sembra un dato molto esteriore della politica: il comizio. Tu sali su un palco, hai dinanzi, come ce le ho avute io molte volte, la piazza piena di gente, a volte strapiena di gente. E un po´ una sceneggiata, un atto teatrale. I saluti, la presentazione, gli evviva, le bandiere. Tutto questo, però, è come l´involucro. Poi comincia invece una cosa molto più difficile e più profonda: tu che stai là sopra, riuscirai a comunicare veramente, cioè a interessare quelle persone, che a volte sono migliaia, a volte sono molte migliaia, molto diverse, grandi, piccoli, bambini? Lo scopri solo se c´è un momento, del comizio, del tuo discorso, in cui senti che ti puoi fermare, senza nemmeno finire la frase. Ti fermi e t´accorgi che la piazza non si muove perché aspetta il seguito della tua frase. Se in quel momento t´accorgi che ti puoi fermare, bere un bicchier d´acqua, soffiarti il naso o non fare nulla e la piazza sta ferma a sentire, allora vuol dire che s´è creato un filo, una comunicazione, un legame tanto forte quanto impalpabile tra te e la massa di persone che ti stanno ad ascoltare».

Un po´ come al cinema

«Eh, forse».

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