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Sandro Molli
L'urbanistica di un pastore di popoli (1946)
17 Gennaio 2005
Urbanisti Urbanistica Città
Utlizzando alcune indicazioni sociali di papa Pio XII, la cultura urbanistica italiana della ricostruzione (con riferimenti non nuovissimi) anticipa alcuni temi che si svilupperanno più tardi soprattutto nel piano INA-Casa di Fanfani. Da Tracciati, gennaio 1946 (f.b.)

Non vi è reggitore di pubblica amministrazione che, tra i fattori di benessere, non ponga, come elemento di prima necessità insieme al pane, la casa, e che, per ottenere pane, casa ed un generale benessere, non si preoccupi di raggiungere un’armonica organizzazione di tutte le funzioni della vita attiva della collettività. Nascono così continuamente in ogni paese civile dei vasti piani per attuare in breve volgere d’anni il programma di tale organizzazione sociale ed economica e per risolvere il problema delle abitazioni, che assilla ogni paese del mondo. Lavoro e casa, due elementi strettamente coordinati fra loro, rappresentano due facce del poliedrico problema dell’attuale vita sociale, ed attendono sempre quella armonica soluzione d’insieme che, purtroppo, ben raramente è raggiunta. Così, ad esempio, è successo per il piano grandioso per la costruzione d’abitazioni in Germania del 15 novembre del 1940, piano preparato e seguito da ampi studi, e dettagliati progetti tecnici ed economici, e che impegnava un ingentissimo sforzo di energie e di capitali (oltre 60 miliardi di lire ai prezzi attuali possono essere calcolate le spese per le costruzioni del prossimo anno, indipendentemente dalle ricostruzioni causate dalla guerra, allora non . previste!). Però, tranne un rapidissimo cenno alla scelta del terreno fabbricabile ed alla densità delle nuove case, al solo scopo di ottenere una buona difesa passiva antiaerea, mancava in tale piano un’impostazione generale del problema, che, precisando i principi e gli scopi immediati ed ultimi, garantisse il raggiungimento di quell’armonia apportatrice del vero progresso all’intera collettività. Ora, mancando una sana impostazione del problema, impostazione eminentemente sociale-economica, dalla quale discende l’impostazione urbanistica, si può chiedere se tutte queste enormi energie e capitali saranno bene impiegati, o se, in ultima analisi, a parte un immediato benessere per il singolo inquilino della nuova casa, non si convertiranno per l’intera società in un danno, in un peggioramento della passata e dell’attuale situazione.

È stato appunto per la visione chiara del problema, scaturente da un principio etico chiarissimo e tendente a scopi ben definiti, che il messaggio natalizio del 1942 di Papa Pio XII destò non poca sorpresa e vivo compiacimento nel campo degli urbanisti, i quali sentirono proclamati e caldamente raccomandati con l’autorità dell’alto magistero, quali presupposti di un nuovo ordine sociale, dei principi eminentemente urbanistici, da loro lungamente caldeggiati, ma raramente fatti proprii dai vari reggitori di popoli.

È noto che tale messaggio pone come “origine e scopo essenziale della vita sociale la conservazione, lo sviluppo ed il perfezionamento della persona umana”. Da questo principio semplice e chiaro scaturiscono i precetti pratici per il raggiungimento dell’assetto sociale: il primo enunciato nel citato messaggio è il seguente, che testualmente trascrivo: “Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio, si opponga a eccessivo raggruppamento degli uomini, quasi come masse senza anima”...

Ecco posto in primo piano, per la soluzione del problema sociale, il postulato che in urbanistica è studiato e risolto nello questione dell’inurbamento, questione che ha agitato gli urbanisti per vari decenni e che, salvo nei particolari, li ha trovati unanimi nella soluzione. Ma questa soluzione, se anche condivisa da quel politico che ha voluto esaminare questa faccia del problema sociale, non è stata generalmente raggiunta; anzi, da noi si è conseguito il risultato diametralmente opposto.

Si è anche gridato: “Sfollare le città!”, ma in realtà i piccoli centri, le vallate particolarmente, si spopolarono e le città vertiginosamente si ingigantirono. Le cifre della statistica parlano assai chiaro: l’inurbamento è un fenomeno universale, e lo si trova nelle regioni più impensate. Nell’Australia, ad esempio, il cinquanta per cento della popolazione vive nelle grandi città (di oltre cento mila abitanti)!

In Italia, all’inizio di questo secolo, gli abitanti nelle grandi città erano 3.206.000; dopo quarant’anni essi salirono a 8.643.000. Torino negli ultimi cento anni ha più che quintuplicato il numero degli abitanti raggiunto nei suoi primi diciannove secoli di prospera vita; Milano l’ha quintuplicato in meno di ottanta anni. La causa di questo rapidissimo raggruppamento di tanti individui è ben nota: con l’avvento della macchina a vapore, l’industria nacque e si sviluppò nelle città, luogo di incrocio delle ferrovie, indispensabili per il trasporto di carbone per l’energia, delle materie prime per la lavorazione, del prodotto finito per lo smercio; luogo di facile offerta di mano d’opera e di residenza dei primi industriali. Attirate dall’industria, le masse rurali affluirono alle città: il loro primitivo perimetro, rappresentato dall’antica cerchia delle mura, talvolta romane od anteriori ancora, che aveva subito un cauto allargamento con la cinta medioevale e quella dei bastioni, si dilatò rapidamente dalla metà del secolo scorso in successive cinte daziarie ed anelli di circonvallazione, conferendo alle città la caratteristica forma di espansione “a macchia d’olio”. Tutto questo ampliamento gravitò, soffocandolo, sull’antico nucleo che, tranne qualche malaugurato “sventramento” che sfigurò il più delle volte il nobile volto dell’antica gloriosa città, rimase nella intelaiatura viaria e nella consistenza edilizia, invariato. Il corpo urbano ingigantì in pochi decenni, il cuore rimase sostanzialmente quello dei secoli precedenti: con l’estensione della città i mezzi di trasporto, particolarmente i nuovi (tranvie ed automobili) aumentarono in proporzione ancora più rapida di quella degli abitanti e si ingolfarono nella ristretta rete viaria, attratti dalle nuove sedi amministrative e commerciali. Pure l’edilizia residenziale nel vecchio nucleo si intensificò, sia in elevazione che in estensione, si intristì, e non più aggiornata dalla moderna tecnica, che rendeva più appetibili le nuove case negli ampliamenti, fu abbandonata da buona parte dei cittadini più facoltosi ai più miserabili, che contribuirono sempre più a declassarla: diradamento e risanamento divennero problemi sempre più urgenti e meno risolti. Purtroppo, oltre che spugne di microbi, molti quartieri cittadini divennero sentine di vizi, e, un più grave del problema viario ed edilizio del corpo urbano, divenne il problema sociale, intellettuale e morale del singolo cittadino, particolarmente del nuovo inurbato.

Sradicato dalla sua terra, lontano dalla sua chiesa, dalla sua contrada, ove la sua famiglia aveva vissuto per generazioni fedele alle divine ed umane istituzioni, in fraternità di spirito e di lavoro con i compaesani, devoto ai suoi vecchi, premuroso che i figli conservassero la stima e la fiducia del vicinato, l’inurbato, trovatosi in un ambiente completamente nuovo, che in nulla gli ricordava l’antico, separato dalle istituzioni e dalle persone alle quali si sentiva affezionato, andò rapidamente trasformandosi non solo nelle sue attività produttive, ma anche nel suo intimo psicologico, intellettuale e morale. Generalmente privo di una sufficiente elevatezza spirituale e culturale, che gli avrebbe concesso di ancorarsi ai suoi principi e di esercitare il proprio senso critico su quanto vedeva, sentiva e leggeva, divenne facile preda del compagno più scaltro, dell’organizzatore più eloquente, del foglio più allettante ; non più a contatto con la natura, con la madre natura, nel libero lavoro dei campi, ma nel lavoro meccanico dell’officina sfibrante alle prese con la materia bruta, l’inurbato non trovò certo l’ambiente favorevole al suo sviluppo intellettuale: il buon senso rurale, che vince mille sofismi cittadini, fu sommerso dalle frasi fatte. Peggio ancora si verificò per il suo sviluppo morale; soffocata od isterilita venne in lui quella virtù che, ignorata o trascurata dal sociologo e dall’urbanista, è pur sempre onnipresente nel pensiero e nell’azione del rurale e dell’artigiano del piccolo centro: la bontà. Quella virtù che affiora sul volto di chi la possiede con il sorriso, che ben raramente si scopre nei consessi cittadini, restò per solito assopita, perchè non più abitualmente esercitata e ricambiata verso tanti sconosciuti, preoccupati solo da questioni economiche, incuranti dell’altrui alletto. Venne in città per star meglio; raramente realizzò il suo sogno; quasi mai divenne migliore; quasi sempre divenne per il suo stabilimento un “pezzo” del macchinario, per il pubblico ignoto un numero di matricola dell’anagrafe, della cooperativa, del partito. La sua personalità naufragò nell’oceano urbano, e di tale naufragio la collettività non poté certo avere vantaggio.

Già dalla fine dell’ottocento, e più ancora agli inizi di questo secolo, allarmati dai casi patologici dell’elefantiasi urbana, eminenti pubblicisti, sociologhi ed urbanisti particolarmente anglo-sassoni (Ebenezer Howard, Raymond Unwin) coadiuvati, se non preceduti da industriali avveduti e di buon senso (Lever, Cadbury) scopersero finalmente che, anziché attirare i rurali nelle grandi città per dar loro da lavorare, meglio era fermarli in campagna, portando loro il lavoro. Nacquero così le città giardino (Letchworth, Welwyn) in Inghilterra, ed altrove, i “satelliti”, organismi completi di carattere non solo residenziale ma anche amministrativo, culturale e produttivo, atti a vivere di una vita quasi del tutto indipendente dal primitivo nucleo. Contemporaneamente, intelligenti piani regolatori di grandi città industriali, particolarmente tedesche, impressero alla città una forma stellare, ampliandola solamente lungo le strade che radialmente uscivano dal nucleo centrale, o, meglio ancora, svilupparono attorno ad esso dei grandi sobborghi autonomi, separati dal primitivo nucleo cittadino da aree libere da costruzioni, riservate all’agricoltura o allo svago dei cittadini, con forma di corone circolari (Colonia) o di tanti triangoli, come di tanti cunei penetranti nel corpo umano.

Cosi l’espansione della “macchia d’olio” urbana venne arrestata: l’edilizia isotropa, massiccia e caotica cittadina venne interrotta, frazionata ed ordinata; il pericolo di un sempre più grave soffocamento per il primitivo nucleo venne cosi scongiurato.

Però queste varie concezioni di espansioni cittadine, tutte a schemi eminentemente radiali, non evitarono l’inconveniente della continua attrazione del centro esercitata su tutto il sistema metropolitano, con il conseguente pericolo di un sempre maggior intensificarsi tanto del traffico quanto dell’edilizia.

La malattia della City diveniva incurabile? La sua esistenza, con l’evolversi dell’arma aerea, non costituiva inoltre il più ambito obbiettivo per disorganizzare non la città soltanto ma tutto il potenziale bellico nazionale? Ed era proprio escluso che, con l’andar del tempo, i borghi autonomi od i satelliti, particolarmente se vitali ed efficienti, per necessità di ampliamento non si sarebbero saldati fra loro, allargando ed inspessendo cosi la cintura che già soffocava la città?

Da queste considerazioni, oltre che da logiche conseguenze di dottrine sociali, si concretò il nuovo tipo della città sovietica (Prof. Miljutin). Non più la metropoli gravitante su un centro, su un punto, bensì su un asse, lungo tutta una linea, percorsa da fluidissime arterie di traffico, ai lati delle quali, come tanti nastri paralleli, si affiancano ben caratterizzate e separate fra loro le varie zone dalle diverse funzioni (produzione, giardini, residenze ), libere di espandersi indefinitamente lungo l’asse. I percorsi quotidiani e comuni alla massima parte degli abitanti (dalla casa ai luoghi di lavoro, di acquisti, di studi, di divertimenti ecc.) avvengono trasversalmente ai nastri: brevi, frequenti e quindi comodi e non sovraccarichi di traffico; i percorsi di eccezione (per una minima parte della popolazione per motivi poco frequenti) avvengono lungo l’asse e sono favoriti da mezzi di trasporto rapidissimi e potenti.

Innegabilmente questo nuovo schema si dimostra molto allettante, poiché molti inconvenienti di carattere viabile, edilizio ed igienico vengono eliminati: però questa continuità, questa uniformità di zone si conformerebbe al nostro modo di vivere, al nostro assetto sociale, alle nostre esigenze spirituali? Sarebbe atta a salvaguardare, e potenziare la personalità dell’abitante? O non sarebbe più consono al nostro costume, alla nostra civiltà, il tentare di comporre i vantaggi della città radiale a satelliti con quelli della città sovietica assiale a nastri paralleli indefiniti? Perché non si potrebbe creare tanti piccoli centri, aventi ciascuno una autonomia assai spinta ed una caratteristica di funzione non unica ma predominante (amministrativa, culturale, militare, assistenziale ecc. ecc.) distribuirli lungo un asse, rappresentato da una vallata o da un corso di fiume ad andamento pressoché rettilineo, o da una importante direttrice di traffico in una regione ricca di risorse naturali e di attività economiche? Ogni piccolo centro, costituito essenzialmente dalle residenze e dalle sedi di pubblica utilità, potrebbe avere nelle vicinanze degli stabilimenti per adatte industrie: altre industrie di maggior importanza, o gruppi organici di industrie interdipendenti, potrebbero costituire da essi soli dei piccoli centri indipendenti posti lungo l’asse (mai attraverso ad esso, per non strozzarlo e non essere tagliati in due), separati ma non lontani dai centri residenziali. Il problema della dislocazione delle industrie è assai delicato; oltre alle esigenze tecnologiche, di trasporti, commerciali, di difesa antiaerea, di igiene ecc., occorre tener presente un lato della questione importantissimo: quello umano. Su questo richiama l’attenzione di quanti hanno a cuore il vero benessere sociale Pio XII nel suo messaggio: “Curino essi - sono Sue parole - che i luoghi di lavoro e le abitazioni non siano così separati, da rendere il capo famiglia e l’educatore dei figli quasi estraneo alla propria casa”.

Se noi esaminiamo l’attuale ubicazione delle industrie nelle nostre città, constatiamo che talvolta esse sono in mezzo alle abitazioni, con conseguente probabile danno all’igiene ed alla tranquillità degli abitanti, con l’intralcio delle loro dimensioni alle comunicazioni interne, con il pericolo permanente dell’offesa aerea e, con scarsissimi vantaggi ed abbondanti inconvenienti per un loro regolare funzionamento. Altre volte sono dislocate all’estremità opposta di quartieri operai, con conseguenti sacrifici per viaggi inutili e peggioramento della circolazione in genere ed in particolare di quella dei pubblici mezzi di trasporto nelle ore più critiche. Altre volte infine sono dislocate addirittura fuori e ben lontane dal centro di provenienza della mano d’opera impiegata. Così oltre all’inurbamento, oltre ai quotidiani molesti ed antieconomici attraversamenti cittadini, la cattiva dislocazione dell’industria provoca quelle grandi migrazioni diurne delle popolazioni rurali che si recano a lavorare nella metropoli; migrazioni temporanee, ma che sono sovente preambolo di migrazioni stabili nell’urbe. A dare un’idea dell’ordine di grandezza di questo grave disordine, cito alcune cifre affiorate da uno studio di piano regionale del 1938, eseguito per conto dell’Amministrazione provinciale di Milano: sono settanta mila le persone che ogni giorno trasmigrano in città, da una zona che supera i 40 chilometri di raggio, con un impiego medio di due ore di viaggio per ogni persona. È superfluo richiamare l’attenzione sugli inconvenienti economici, igienici, psicologici e morali per i singoli operai, di questi viaggi intrapresi tutti i giorni in tutte le stagioni, con qualsiasi tempo, con mezzi scomodi (biciclette, ferro-tranvie insufficienti, con orari sfasati, ecc.). Ma è più che opportuno il richiamo sulle tristi ripercussioni che questa mancanza di organizzazione ha sull’andamento della famiglia, sulla sua unità, e sull’assistenza ed affetto dei suoi componenti.

Ora non sarà difficile nel tipo di città proposto, trovare una buona ubicazione delle industrie corrispondenti ad ogni centro residenziale: distinte da questo, ma non molto distanti, qualora non siano nocive o necessitino di particolari servizi tecnologici e di trasporti, sparse e frazionate il più possibile (ricordiamoci che l’autotreno aveva, pure da noi, vinto la ferrovia anche dal lato economico, contribuendo efficacemente ad un diffuso decentramento delle industrie). Ad altre speciali industrie sarà sempre possibile assegnare particolari località (presso canali navigabili: per le industrie nocive, a valle delle residenze rispetto ai venti dominanti, ecc.), tali però da essere sempre facilmente raggiunte con comodi percorsi, dagli abitanti di uno o più centri. Non sarebbe cosi difficile realizzare l’ideale di urbanisti e sociologhi a questo riguardo: raggiungere dalla propria abitazione il luogo di lavoro con un comodo percorso a

Naturalmente tale percorso è in dipendenza alla vastità che si vuol assegnare a questi centri. Anche questa è una questione ampiamente dibattuta in urbanistica. I Russi progettano queste loro città assiali per oltre cento mila abitanti. Gli Inglesi per le loro città giardino proponevano prima trenta poi cinquanta mila abitanti; il tedesco Gottfried Feder, dopo una minutissima indagine ha recentemente proposto, per la città ideale, ventimila abitanti. Anche questa ultima città è una entità già notevole e complessa e supera per numero di abitanti i centri di parecchi capoluoghi di nostre provincie (Aosta, Cuneo, Grosseto, Chieti, Potenza ecc.).

Il criterio adottato dai più di creare degli aggregati umani di grandezza tale che i necessari pubblici organismi abbiano a funzionare in piena efficienza, non mi pare troppo convincente ed esclusivo. Più logico mi pare proporzionare l’organo alla funzione e non viceversa: l’ideale nel nostro caso sta nello stabilire l’ottimo numero di abitanti per ogni aggregato, ed a questo proporzionare i vari organismi, i vari “servizi” richiesti. E per stabilire questo numero di uomini mi pare migliore criterio assumere un metro prettamente umano. In un aggregato gli individui si amano, si aiutano, si comprendono, cercano insomma di essere migliori, quando si conoscono reciprocamente. Raramente si ha stima, fiducia, affetto verso un ignoto: l’estraneo ha generalmente minor ritegno a mal operare, minori stimoli alla rettitudine (anche nei recenti fatti di questo periodo turbinoso, raramente i nativi del luogo si sono abbandonati ad eccessi di odio e di ferocia). Ora l’esperienza insegna, per esempio, che chi ha cura d’anime o di corpi riesce ad abbracciare con la mente e con il cuore la massima parte degli abitanti di un aggregato non superiore ai cinque-seimila abitanti: qualora non si esiga una conoscenza profonda e duratura di tutta la popolazione, ma si ritenga sufficiente una conoscenza dei più notevoli membri di ogni famiglia (conoscenza facilmente estensibile, caso per caso, ai rimanenti componenti), allora tale numero potrà essere aumentato di un paio di migliaia. Ottomila abitanti ritengo essere l’ottimo per questi centri, per queste cellule delle grandi città. Quanto ai cosidetti “servizi”, agli organismi cioè di pubblica utilità e di notevole importanza che hanno da servire alla vita materiale della collettività, e al suo sviluppo e perfezionamento fisico, intellettuale e morale, ritengo necessari e sufficienti per un aggregato di ottomila persone la scuola e la chiesa. È bene sottolineare l’importanza della scuola (scuola elementare pubblica con le cinque classi), tanto più se, come avviene nelle nazioni più progredite, e come sarebbe molto conveniente .avvenisse ora nei nostri piccoli centri, la scuola dovesse costituire il centro di cultura fisica ed intellettuale (palestre, biblioteche, sale di conferenze, ecc.) non solo per i ragazzi dell’età scolastica, ma per l’intera popolazione.

Dell’importanza della scuola vi è un richiamo esplicito e nobilissimo nel messaggio pontificio: “che tra scuole pubbliche e famiglia rinasca quel vincolo di fiducia e di mutuo aiuto, che in altri tempi maturò frutti cosi benefici, e che oggi è stato sostituito da sfiducia colà ove la scuola, sotto l’influsso o il dominio dello spirito materialistico, avvelena e distrugge ciò che i genitori avevano istillato nelle anime dei figli”! Per trasferire questo richiamo nel campo urbanistico, occorrerà che il vincolo tra casa e scuola sia concretato con un’armonica fusione tra il quartiere residenziale e l’edificio scolastico, ben distanziato e proporzionato, costruito su terreno sicuramente o gradevolmente accessibile, sufficiente ed in giusti rapporti con le aree destinate alle altre pubbliche necessità. In un’analisi urbanistica avevo proposto l’edificio scolastico per circa 720-800 allievi (due aule maschili e due femminili di 36-40 allievi per ciascuna delle 5 classi): tale edificio dovrebbe conciliare le esigenze dell’insegnamento, della comodità e dell’economia. Ottocento allievi circa rappresentano appunto la popolazione scolastica di una intera popolazione di carattere cittadino di otto mila abitanti (La media delle percentuali degli alunni delle elementari sull’intera popolazione urbana è appunto di 10,02%, con un minimo per Torino e Milano del 6-7 per cento ed un massimo per Ferrara e Bari dell’11-12 per cento). Pure la chiesa parrocchiale con ottomila anime potrà già vivere di una vita florida e con la piena efficienza delle sue istituzioni ed organizzazioni, senza compromettere il contatto che i fedeli hanno da mantenere con il proprio pastore, personalmente responsabile verso Dio e gli uomini della salute del suo gregge. Questi due organismi hanno da costituire il nucleo spirituale dell’aggregato, e per l’efficienza della sua alta missione dovrà essere integrato da un giardino di quartiere, che lo protegga dagli inconvenienti della vita attiva dei cittadini, e sia di diretta utilità per gli abitanti dilla zona circostante, che si suppone di edilizia saggiamente intensiva, e quindi bisognosa di spazi a verde. A questo centro spirituale, ritenuto baricentrico rispetto all’intera popolazione, si potrà agevolmente pervenire a piedi dal punto maggiormente lontano in meno di cinque minuti (densità urbana di circa 180 abitanti per ettaro).

Per gli altri organismi di minor importanza di uso generale e quotidiano di carattere commerciale-amministrativo, richiesti da una popolazione di 8.000 abitanti, non credo che vi siano difficoltà di proporzionamento e di collocazione per un efficiente loro funzionamento.

È però ovvia l’osservazione che se i singoli aggregati fossero destinati ad una popolazione superiore agli ottomila abitanti, essi potrebbero essere dotati di tutti quei “servizi” che, pur non essendo di uso generale e quotidiano, rappresentano sempre una grande comodità per la popolazione: sono appunto questi edifici ed istituzioni che tanto fanno invidia al rurale e che per essi sovente si inurba (scuole medie o di specializzazione, centri finanziari, assistenziali, ricreativi, .ecc.).

Questo è pacifico: ma non ritengo difficile una soluzione a favore dei piccoli centri. Essa può consistere nel disporre due o più piccoli centri presso un comune nucleo costituito da tali “servizi” più complessi: questo nucleo ha da essere completamente isolato dai piccoli centri da zone vincolate a verde, preferibilmente boschive, il miglior elemento di separazione e di congiunzione.

A tali nuclei di “servizi” si potrà pervenire a piedi mediamente in dieci minuti, ed in un quarto d’ora circa dal punto più lontano del sistema. Tali percorsi, paragonati a quelli delle grandi città sono più che comodi ed economici, non richiedendo pubblici mezzi di trasporto. Ferro-tranvie con frequenti servizi di vetture del tipo di littorine, metropolitane, autostrade, autocamionali, ampie strade ordinarie e canali navigabili correranno esclusivamente su proprie sedi, anche distanziate fra loro, parallelamente all’asse; il percorso sarà fluidissimo non essendo rallentato da alcun ostacolo. La maggior parte degli abitanti dei piccoli centri si servirà dei mezzi di trasporto pubblici nei soli casi d’eccezione, quando cioè hanno da trasferirsi in altri centri, od a quelle grandi istituzioni amministrative centrali, bancarie, commerciali, di alta cultura, di specializzazione ospitaliera, teatri d’opera, campi di gioco per competizioni nazionali, esposizioni, aeroporti, stazioni di ferrovie di andamento trasversale al grande asse, ecc., tutti organismi che sarà bene accostare alle grandi vie di comunicazioni, isolati o conglobati, secondo i casi, ai centri residenziali.

Per quanto riguarda queste zone residenziali il messaggio pontificio contiene frequenti richiami ed offre saggissimi ammaestramenti, tutti di grande ed urgente attualità. Ma ritengo per ora soprassedere, rappresentando essi in certo qual modo un particolare nel quadro generale dell’impostazione del problema sociale. In quest’ora di ricostruzioni morali e materiali, urge conseguire i mezzi morali per bene impiegare quelli materiali; è questa l’ora di definire i programmi d’azione realmente morali e spirituali e non soltanto economici e tecnici. Il programma urbanistico consisterà non tanto nel rendere la vita dei cittadini più comoda, bensì di renderla migliore. La grande città per “l’eccessivo aggruppamento degli uomini, quasi come masse senz’anima”, corrompendo la dignità ed intaccando i diritti della persona umana, offuscando la luce degli spiriti e minando la sanità dei corpi, corrompendo la santità dei costumi famigliari ed allentando i vincoli della fraternità umana, ha rivelato troppi fattori negativi per il progresso della civiltà.

Senza rinunciare ad evidenti benefici del progresso industriale ed urbano, occorre dare nuove forme alle città e nuovi ordinamenti ai cittadini. Quali dovranno essere queste forme e questi ordinamenti ? Spetta ai sociologhi ed agli urbanisti approfondire tali studi; spetta a tutti gli uomini di buona volontà seguire l’esempio di Pio XII, che tali studi ha elevati.

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