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Pietro Citati
Il Paese dove tutto è grande o massimo
13 Gennaio 2005
Le parole
Le parole e i vizi dell’ego obeso nella riflessione sconcertata d’un maestro. Da la Repubblica del 12 gennaio 2004

Da qualche anno, in Italia e in molti Paesi europei, tre aggettivi si moltiplicano e si diffondono con straordinaria esuberanza, come fossero animati da una linfa più feconda delle altre parole. Questi aggettivi sono: il massimo, il grande e il grosso.

Ogni giorno, leggiamo sui giornali: «il nostro massimo specialista di letteratura moldava»: ce n´è uno solo; e forse la letteratura moldava non esiste. Oppure: «il nostro massimo esperto della letteratura italiana dal 2001 al 2004»: dopo il 2001, la letteratura italiana non ha dato segni di vita.

Quanto al «nostro massimo francesista», o al «nostro massimo germanista», o al «nostro massimo storico moderno», o al «nostro massimo sociologo», o al «nostro massimo semiotico», ce ne sono moltissimi: si litigano tra loro, nella rissa dei seguaci, ed è impossibile scoprire le gerarchie di questo guazzabuglio.

Massimo è un aggettivo amato dai professori universitari, dagli scrittori e dai critici: serve a blandire un potente, a implorare una cattedra, a elemosinare una recensione, ad ottenere un invito alla prima della Scala, l´8 dicembre.

Grande è molto più diffuso. Nessuna legge può impedire ai cinquantasei o cinquantasette milioni di italiani di credersi grandi. Grande è dovuto a tutti: come il certificato di nascita, la cittadinanza, la patente, il voto, il pane, il vino, il panettone di Natale, un viaggio a Parigi. In realtà, oggi non esistono grandi di nessuna specie. Non ci sono né grandi scrittori, né grandi filosofi, né grandi storici, né grandi pittori, né grandi critici letterari, né grandi cardinali, né grandi economisti, né grandi giuristi, né grandi idraulici, né grandi uomini politici, né grandi editori, né grandi cuochi, né grandi attori, né grandi elettricisti, né grandi registi, né grandi architetti, né grandi direttori d´orchestra, né grandi giornalisti. Ci sono soltanto moltissimi falsi grandi, di qualsiasi genere.

Col tempo si è formata un´immagine del falso grande.

Per quanto ne so, egli possiede una grandiosa coscienza di sé, l´alone dorato degli angeli, una virtù d´amianto, una bontà (fintamente) affettuosa, un incalzante amore per gli altri, la cordiale risata e la cordiale pacca sulla schiena, una loquela inarrestabile, un lieve pizzico di spiritualità, e quella «marcia in più», che secondo l´elegante espressione di Giuliano Amato, distingue le religioni. Soprattutto, è avvolto da una pia unzione, da un balsamo o profumo, che impregna ogni poro della sua pelle e ogni bottone del suo vestito.

Tutti gli italiani sanno che si tratta di falsi grandi: perché il grande narratore produce pessimi romanzi, il grande poeta liriche infami, il grande economista disastri finanziari, il grande politico Stati in rovina, il grande industriale stabilimenti spettrali, mentre il grande banchiere, prima di farsi impiccare a un ponte di Londra, aspira come un´idrovora i conti correnti e le azioni dei suoi clienti. Ma non c´è niente da fare. Se uno viene riconosciuto grande dalle sette reti televisive, dal Corriere della Sera e da Repubblica, non perderà mai il proprio nome, sebbene dica e faccia meravigliose sciocchezze. Alla fine, arriva la morte. Il falso grande precipita nell´abisso definitivo, tra il sollievo, l´allegria, gli scherni e gli schiamazzi. Ma non è sempre certo: abbiamo appena visto alcuni falsi grandi pianti e compianti, con verissime lacrime, da milioni delle loro vittime.

Di grosso, mi riesce più difficile cogliere il significato preciso.

Ogni settimana, un mio conoscente, con la berretta in testa, il cranio accarezzato da pochi capelli bianchi baluginosi, gli occhi spiritati, mi dice con ammirato stupore: «Sa, il tale è un grosso personaggio». Chi è grosso è sempre un personaggio. Ciò suppone un corpo sovrabbondante, un´anima adiposa, l´occhio dilatato e spento, un´ostentata virilità, una grandiosa stolidità, qualche inciampo nel parlare e scrivere l´italiano, e una fitta frequentazione del Maurizio Costanzo Show e di Porta a Porta.

Non abbiamo bisogno né di massimi, né di grandi, né di grossi. Certo, Augusto, Gengis Khan e Stalin erano grandi. Eppure Augusto, coi suoi lineamenti delicatissimi e quasi femminei, fu uno dei peggiori assassini della storia; Gengis Khan ricoprì di piramidi di crani le pianure dell´Asia centrale; e se non fosse morto nel suo lettuccio al Cremlino, Stalin avrebbe reso l´Unione Sovietica un deserto popolato soltanto da gulag e sedi marmoree del P. C. (b), dove il suo sguardo d´aquila poteva estendersi, senza incontrare resistenza, fino all´infinito. Senza massimi, falsi grandi e grossi, potremo vivere benissimo: spiritosi, educati, colti, civili, tolleranti, amabilmente mediocri - e decenti, per usare una parola che Eugenio Montale amava.

Certo, ci mancherebbero i grandi scrittori e pittori.

Ma ce ne sono stati tanti nel passato; e la vita non basta a leggere e rileggere, vedere e rivedere con gioia sempre nuova Omero, Ovidio, Apuleio, San Paolo, Chuang-Tzu, le Mille e una notte, Grünewald, Giorgione, Montaigne, Il sogno della camera rossa, Leopardi, Dostoevskij, Monet, Kafka; e tutti gli altri che hanno scritto e dipinto silenziosamente per noi - ultimi, infimi sudditi dell´universo.

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