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Sandro Portelli
Interessi americani
6 Novembre 2004
Enrico Berlinguer
Un'altra riflessione ( da il manifesto del 6 novembre 2004) sulla vittoria di Bush che serve per affrontare un po' meglio le questioni di casa nostra. Di cui è bene che ci occupiamo, no?

Cominciamo con un'autocritica. Sapevamo da tempo che i repubblicani Usa avevano mobilitato al voto la destra religiosa fondamentalista; ma nel fervore preelettorale abbiamo finito per parlarne poco o niente. Siamo stati contagiati dalla speranza e dall'impegno delle campagne democratiche nelle ultime settimane prima del voto, mentre i repubblicani, previdenti e organizzati, la loro mobilitazione l'avevano fatta molto prima, quando i riflettori erano ancora meno focalizzati sulla campagna elettorale. E l'hanno fatta potendo contare soprattutto su strutture organizzate e ideologizzate come le chiese, su mezzi di comunicazione capillari e istituzioni educative ben finanziate, muovendosi sotto la soglia di attenzione nostra e dei media progressisti. Col senno di poi, è facile ricordarsi che una parte dell'astensionismo è legata a una religiosità «other-worldly», che si occupa solo dell'aldilà e ritiene che gli affari di questo mondo non la riguardino - fino a che qualcuno non li convince che negli affari del mondo sono in gioco anche articoli di fede. Avremmo dovuto parlarne prima. Una volta scoperto questo fatto, sui nostri media è apparsa subito una vulgata istantanea: a) le elezioni non si vincono sulle questioni materiali ma sui valori; b) per orientarci sui valori dovremmo ascoltare la destra. Credo che entrambi i punti siano sbagliati.

Fra i «valori» che hanno orientato il voto di maggioranza negli Stati uniti spiccano intolleranza sui gay, rifiuto del diritto di scelta delle donne, guerra e militarismo, armi da fuoco, pena di morte... Questi per me non sono valori, ma il loro contrario. Ma noi abbiamo delegato l'idea stessa di «valori» al cattolicesimo e alla destra, tanto non che ci riesce di dirlo, né di affermare valori altri, che vengono dalla storia della sinistra e della democrazia: giustizia sociale, uguaglianza, pace, non violenza, apertura culturale, accoglienza, l'internazionalismo, ambientalismo, una laicità rispettosa del diritto di tutti i credenti e non credenti. Sono valori capaci di accendere speranze, passioni, mobilitazioni. Ma invano li cercheremmo nelle piattaforme del nostro centrosinistra, o in quella di Kerry. L'unico che ha osato parlare di in pubblico di giustizia economica è stato Bruce Springsteen, che fa un altro mestiere.

E passiamo alla «autonomia» dei «valori forti» rispetto agli interessi materiali. Facciamo conto che gli elettori americani fossero posti davanti alla scelta fra votare contro l'aborto o a favore di qualcosa che gli cambia la vita, per esempio, il diritto alla salute; fra votare contro i gay o a favore di un buon contratto di lavoro, un salario adeguato e sicuro, una casa a un prezzo decente, trasporti pubblici accessibili, l'istruzione superiore per i propri figli... Siamo proprio sicuri che i «valori forti» avrebbero la meglio su questi interessi concreti? I democratici hanno governato per quarant'anni sulla base di un progetto socio-economico, il New Deal, che ha cambiato la vita di milioni di persone. Eppure, la destra religiosa esisteva anche allora. Io credo che molti votanti si concentrano sui «valori» immateriali sia perché nessuno gli propone niente di altrettanto significativo sul piano degli interessi materiali, tale da cambiargli la vita; sia perché, anzi, non credono più che qualcosa possa cambiare. Clinton vinse puntando su un interesse materiale, la riforma sanitaria e il diritto alla salute (che per me è anche un valore, ma lasciamo perdere) e gli elettori gli ridiedero fiducia anche dopo il disastro «etico» di Monica Lewinski. Ma poi la riforma sanitaria non si è riusciti a farla, e si è rinforzata l'idea che il sistema economico sia un destino immutabile, un dato irriformabile. Inutile starci a pensare, il mondo non cambierà mai se non in peggio; ragioniamo su altre cose su cui abbiamo opzioni più chiare.

Sul piano economico Kerry era sicuramente diverso da Bush - ma non abbastanza da generare speranze e spostare orientamenti. La sua descrizione dei fallimenti della politica economica di Bush era puntuale, ma le spiegazioni delle cause erano poco incisive e la proposte generiche e timide. Mi piaceva la sua idea di portare il salario minimo da 5 dollari e mezzo a 7; ma era appena un modo per non far crepare i più miserabili, non cambiava la vita di nessuno (e comunque, in un'elezione dove un'astensione del 42% è decantata come un trionfo democratico, sospetto che non fossero tanti i minimum wage workers che sono andati a votare - pure perché tanti di loro non ne hanno il diritto).

Insomma, l'alternativa non è fra valori e interessi materiali come tali, ma fra un discorso netto e forte sui valori e una proposta debole e generica sugli interessi. Infatti la destra possiede anche un discorso forte sugli interessi materiali. In televisione, Bertinotti ricordava che in Ohio si sono persi duecentomila posti di lavoro negli ultimi anni e implicitamente, come Kerry, ne attribuiva la responsabilità a Bush. Ma una parte del voto per Bush viene proprio da gente che ha perso il lavoro, gente alla quale la destra offre una spiegazione convincente e un capro espiatorio credibile: è colpa della concorrenza sleale del resto del mondo. Mi ricordo, a Youngstown, Ohio, la dolorosa, eloquente poesia di un operaio licenziato dell'auto, che finiva: «ma che ne sapete di tutto questo, voialtri intellettuali con le vostre macchine straniere?» Se i padroni americani ti licenziano, la colpa è degli intellettuali e degli stranieri. Né Kerry ha proposto qualcosa di molto alternativo - per esempio, una legislazione che renda meno facile licenziare, discriminare, ingaggiare crumiri, e che dia ai lavoratori una forza contrattuale paragonabile a quella che gli diede l'NRA negli anni '30. Sarà volgare, ma credo che, anziché una separazione, esista un nesso fra un certa lettura dei fatti socio-economici e una certa proposta di «valori». Se la colpa del declino economico dell'America popolare è degli stranieri, è logico rifugiarsi in un nazionalismo guerresco che illude di espandere il modello americano facendo la guerra agli stranieri e impadronendosi del loro petrolio; se la colpa è di quelle checche degli intellettuali, è naturale aggrapparsi ai «valori» virili delle armi da fuoco, della pena di morte, della discriminazione dei gay, del dominio sul corpo delle donne. In altre parole: in questa elezione, «valori» e interessi non sono stati tanto autonomi, quanto correlati. L'elettorato americano ha votato sui valori che meglio collimano con la percezione (sbagliata e ideologica, ma semplice e convincente) dei propri interessi.

Una cosa la possiamo imparare dalla destra americana: la pazienza e la lungimiranza. La travolgente egemonia di oggi è il risultato di un ripensamento cominciato dopo la sconfitta di Goldwater nel 1964. Allora, nel pieno di quella che sembrava l'avanzata inarrestabile dell'altra America, il partito repubblicano cominciò a cambiare pelle. Smise di puntare sul ceto medio-alto moderato; si spostò verso la destra radicale, religiosa e rurale; sviluppò una proposta di «valori» e una strategia di comunicazione capace di far cambiare schieramento a molti elettori tradizionalmente democratici. Più che con Nixon (normale alternativa bipartitica), questa strategia si affermò con Reagan, che fu l'esito e il rilancio di una profonda modificazione delle coscienze. Ci sono voluti quindici anni, ma dura da ventiquattro anni (l'intervallo Clinton fu reso possibile da Ross Perot) più i prossmi quattro, e non se ne vede la fine. Allora, cerchiamo pure tattiche e alleanze per togliere subito il governo a Berlusconi; ma se non ci mettiamo in testa di lavorare a lungo termine e in profondità su un insieme di proposte materiali e di principi morali correlati nostri e distinti, non ci libereremo mai del berlusconismo. E anche se vinciamo, lo vedremo tornare.

C'è un'altra ragione per l'egemonia repubblicana a lungo termine: l'inevitabile messa in discussione del modello di vita americano e occidentale. I limiti di sostenibilità del pianeta, le legittime richieste di vita migliore da parte delle maggioranze dell'umanità comportano un declino o una radicale revisione di uno stile di vita che dipende dall'accaparramento e dallo spreco di quote sproporzionate delle risorse limitate del mondo. In altre parole: è finita la frontiera; è finita un'idea di benessere e di democrazia fondati su un'espansione senza confini. Possiamo progettare un modo di vita diverso; o possiamo arroccarci a difesa esclusiva dei nostri privilegi attraverso il dominio economico e militare (creando una frontiera nuova che arriva fino all'Asia Centrale). Per i repubblicani americani, e non solo loro, lo standard di vita occidentale non si tocca, e se produce guerre e inquinamento, guerre e inquinamento sia. E siccome quelli che se ne stanno già accorgendo e pagando i prezzi non sono i ceti privilegiati, ma i lavoratori, i precari, i disoccupati, i più giovani, gli emarginati, è proprio in queste fasce che una strategia di difesa a oltranza dell'esistente contro ogni cambiamento trova consensi. Anche qui una strategia economica è correlata a indicazioni di «valori». Maggioranze preoccupate e insicure, tanto più dopo l'11 settembre, si convincono che i propri interessi economici si difendono chiudendosi nell'egoismo personale e nazionale, subordinando lo stato di diritto alla sicurezza, sospettando di chiunque non ti somiglia, perseguendo il dominio del più forte, disprezzando ogni vestigia di diritto internazionale come un'offesa alla propria sovranità (e ogni positiva azione dello stato come una violazione della propria libertà solitaria). La paura del declino economico e l'egoismo fondamentalista sono facce di una sola medaglia.

E per finire. L'unico referendum in cui ha prevalso un'opzione «progressista» è stato quello sulle cellule staminali in California. Un'amica americana l'aveva previsto: c'è sempre più gente in America, diceva, che ha un'età in cui non ha più bisogno dell'aborto ma ha paura dell'Alzheimer. Tra la «moralità» di Bush e l'interesse a cercare una cura, non hanno esitato. Ma non è tanto un segno di laicità e modernità, quanto di stanchezza e, ancora, di paura: l'America a cui volevamo bene, giovane e piena di speranze, è sempre più carica da paure, solitaria ed egoista, e più vecchia.

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