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Luciano Pontuale
Sei articoli sul centro storico di Roma
10 Maggio 2004
Sei articoli sul cen
Raggruppo in un unico testo sei articoli di corposa critica alla normativa per il centro storico di Roma, nel nuovo PRG, comparsi nel 2002-2003 sulla rivista dell'Associazione romana proprietà edilizia

PRIME VALUTAZIONI SUL CRITERIO ASSUNTO IN TEMA DI CONSERVAZIONE DAL NUOVO PRG DI ROMA

Il nuovo PRG di Roma, sia per l’importanza della città sia per l’autorevolezza dei consulenti, costituirà non solo per la capitale un indubbio caposaldo di riferimento che si porrà forse come suggello disciplinare nella variegata e spesso confusa cultura urbanistica dell’ultimo decennio ma certamente sarà anche oggetto di attenta valutazione da parte degli urbanisti più sensibili all’evoluzione della disciplina proprio per i suoi contenuti metodologicamente innovativi e per l’originalità di non poche impostazioni progettuali. Tale PRG indubbiamente inoltre costituisce, nel bene o nel male, un precedente autorevole e talvolta significativo a cui la prassi o il “mestiere” professionale potrebbero, come spesso accade, richiamarsi per attingervi suggerimenti ogni qualvolta è in gioco il tema della pianificazione urbana delle nostre città.

Non sempre, però, riferirsi alla metodologia del PRG romano è auspicabile.

Nel campo della conservazione della città storica notevoli spunti di riflessione critica, raramente positivi, presentano gli elaborati di analisi e di progetto ma, soprattutto, sono le norme tecniche di attuazione che maggiormente lasciano a desiderare, a prescindere dalle modifiche successivamente introdotte dalla reggente legge obiettivo n° 443 del 21.12.01 che dal 10.04.02 deregolarmenterà molti interventi con la cd procedura della “super DIA”.

Appare subito evidente, nel come viene affrontato il tema del recupero della città storica, l’intento dei consulenti di superare il tradizionale criterio operativo che si esauriva quasi sempre nel declinare una gamma di interventi conservativi riferiti soprattutto al singolo edificio, in forza di specifici giudizi di carattere architettonico-ambientale.

Con il nuovo PRG viene, infatti, proposta la logica della conservazione e valorizzazione degli edifici partendo anzitutto dai “tessuti urbani”, considerati come matrice fondamentale e primaria, solo attraverso i quali è possibile distinguere come e dove intervenire per meglio far convergere le soluzioni di dettaglio nei diversi casi di studio, siano essi riferiti a edifici, spazi aperti o singoli ambiti di valorizzazione. Tutto ciò, in linea di principio è del tutto accettabile ed operativamente altrettanto condivisibile per la sua impostazione sia metodologica che culturale.

Tali considerazioni, tuttavia, cambiano, come già detto, quando in concreto si vanno a valutare nel merito le singole prescrizioni delle NTA e le relative conseguenze operative.

L’articolo 20 delle citate norme sottolinea, ad esempio, con il 1° comma, perché si deve parlare di “città storica” e non più di “centro storico” e se ne dà una definizione ed una giustificazione che è tutto fuorché innovativa dato che già molti PRG di recente elaborazione hanno già fatto propria tale opportunità estendendo il criterio della conservazione anche ai tessuti edificati nella prima metà del XX secolo, almeno fino agli anni ’40 e ’50 del 1900.

Meno felice sembra, inoltre, lo sforzo dei redattori delle NTA quando cercano di sintetizzare, nel 2° comma, quali debbano essere gli interventi di conservazione e valorizzazione ammissibili nella città storica. Trattandosi di un comma importante posto a sostegno di tutta l’impalcatura regolamentare che deve garantire da una parte il progettista e dall’altra l’ufficio competente circa la correttezza e la “qualità” della prosposta di restauro che si vuole effettuare, questo non solo appare troppo schematico, per non dire generico in talune sue affermazioni, ma sembra soprattutto essere anche in contraddizione con quanto in parte viene esposto in altre articoli del Capo 2. C’è da aggiungere che tale comma appare addirittura di difficile interpretazione lessicale o di superficiale impostazione storico-critica dato che postula giudizi che possono dar luogo a difformi valutazioni operative e a conseguenti contenziosi, per non parlare della tanto invocata “certezza di diritto” che dovrebbe garantire il proprietario e che, invece, si configura come un’entità alquanto evanescente.

Certamente, con tali premesse a livello culturale non si è fatto con il PRG di Roma un grande passo in avanti nel campo della conservazione, e dire che sarebbe stato auspicabile stante l’importanza del tessuto storico della città! Sembra anzi di assistere quasi ad un passo indietro rispetto a quanto la disciplina specialistica ha saputo fornire in questi ultimi anni in tema di salvaguardia delle città storiche elaborando più esaustivi e meglio approfonditi criteri metodologici ed operativi redatti su più consistenti basi concettuali e storico-critiche.

Per non restare nel vago e per meglio chiarire questo ultimo punto, il 2° comma di tale articolo rende estremamente difficile garantire il recupero degli “stratificati caratteri storico-morfologici” affidandosi alle vaghe prescrizioni su ciò che si può o si deve demolire (lettera a). A nulla serve, poi, la raccomandazione, certamente condivisibile ma così come esposta ininfluente, circa il recupero della residenzialità (lettera b). Corretto, sebbene bisognasse essere più espliciti, è il criterio che deve presiedere al “restauro dei complessi e degli edifici speciali”, anche se sarebbe stata opportuna una più chiara definizione degli interventi da escludere ed una meno generica indicazione su gli “interventi unitari” (lettera c). Particolarmente delicato se non attentamente controllato è il tema della cd “valorizzazione delle strutture e degli elementi di archeologia antica e medievale rilevati”; l’incentivo a tale “valorizzazione” può provocare danni enormi all’integrità linguistica e stilistica delle singole architetture se non condurre a veri e propri errori d’interpretazione circa la messa in luce delle non meglio precisate “parti strutturali” (lettera d). Generiche ed eccessivamente permissive sono, infine, le clausole per “l’integrazione delle attrezzature e dei servizi mancanti” che potrebbero permettere l’inserimento di tutto e del suo contrario (lettera e).

In sostanza, l’intero secondo comma, anziché limitarsi a tali superficiali sub-articolazioni dal sapore vagamente pedagogico e manualistico, se non talvolta addirittura equivoche per le applicazioni negative che ne potrebbero derivare, avrebbe fatto meglio a ribadire il principio irrinunciabile della centralità del restauro, della conservazione e della valorizzazione dei caratteri tipo-morfologici storicizzati di ogni singolo edificio, con più chiarezza, decisione e cogenza riducendone i contenuti ordinatori a tutto vantaggio di quelli perentori.

E’ ben vero, tuttavia, che negli articoli successivi, qua e là, vengono indicati con maggior forza e chiarezza i caratteri distintivi che debbono essere posti alla base di qualsiasi progetto di conservazione, ma tali affermazioni entrano troppo spesso in conflitto con altri articoli o parti di essi generando un costante disorientamento che alla lunga finisce per avvantaggiare indirettamente solo coloro che sono così abili (e sono tanti!) nell’interpretare a proprio favore le singole frasi prese in modo discontinuo dai vari articoli, assemblandole capziosamente per ottenere risultati ben diversi da quelli previsti per la conservazione e la salvaguardia dei tessuti e degli edifici storici.

Condivisibile, invece, appare l’intero 3° comma, anche se i riferimenti agli “studi, sistemi e regole” in scala 1:10.000 e 1:5.000 sono culturalmente assai discutibili, ma tali studi e analisi saranno oggetto di un successivo commento in un altro numero della rivista.

A conclusione di questa sintetica analisi dei primi articoli delle nuove NTA relative alla città storica non si possono ignorare gli articoli che vanno dal 21 al 29 e che riguardano i diversi tessuti storici, da quelli medievali sino a quelli di espansione novecentesca passando per quelli rinascimentali, barocchi e ottocenteschi. Tale suddivisione per “epoche”, che verrà meglio analizzata anch’essa in un successivo articolo per debito di informazione e completezza sull’intero Capo 2, è certamente innovativa essendo il frutto di una lunga serie di studi predisposti in occasione del nuovo PRG, di carattere quasi sempre indicativo, ma che sono certamente da considerare interessanti per l’inquadramento storico-documentario di sintesi che contengono, indipendentemente dalle omissioni occasionali, delle ipotesi più o meno verificabili e delle determinazioni talvolta poco analitiche e dai presupposti chiaramente aprioristici che li caratterizzano in gran parte.

Tali studi, anche per la loro natura, è assai discutibile che possano considerarsi utili ai fini della conservazione, se non altro per il carattere dichiaratamente “cronologico” che li impregna, quando dovrebbe, invece, essere ben noto che nel campo della conservazione le “fasi temporali” non hanno alcun diritto da rivendicare. Che valore ha, ad esempio, la cronologia per il periodo manieristico o, peggio ancora, per quello medievale?

Tutti questi elaborati, tuttavia, per non far torto all’onestà intellettuale e al generoso impegno di quanti vi hanno lavorato con passione, pur se ininfluenti, valgono certamente per quello che sono, e cioè come ausili orientativi e di primo riferimento ricognitivo, talvolta anche privi di verità, dato che solo in pochi casi essi assumono un significativo valore certo e documentario.

Opinabile, pericoloso e culturalmente improprio, se non scorretto, appare, per ultimo, lo sforzo di traino che le NTA (art. 21, 8° comma) intendono assumere sia con l’elaborato G8 “guida per la qualità degli interventi” e sia con l’elaborato G1, proprio per l’eccessivo schematismo e apoditticità che li caratterizza entrambi. Tali “guide” costituiscono un momento certamente innovatore nel panorama delle indagini urbanistiche ma c’è da augurarsi che tale “impegno” non crei un precedente per far germinare in Italia analoghi elaborati pseudo-storici, del tutto acritici, e che tale sforzo non si trasformi in un esercizio metodologicamente improprio al fine di poter valutare il grado di intervento necessario per la conservazione degli edifici storici delle nostre città, altrimenti la cultura del restauro urbano ritornerebbe indietro di almeno trent’anni. Ma tale argomento è bene rinviarlo ad una riflessione più approfondita per non disconoscere tutte quelle positività che sono indubbiamente presenti nel nuovo PRG di Roma, malgrado tali rilievi.

Roma, 5 febbraio 2002

LA CONSERVAZIONE DEL CENTRO STORICO “PER TESSUTI”

Singolare, anche se non originale, è lo studio che si è voluto riservare ai tessuti urbani storici nel recente PRG di Roma come espressione di una nuova strategia certamente innovativa per la conservazione degli edifici e degli ambienti urbani di consolidato e stratificato valore culturale. La singolarità dell’impostazione concettuale, metodologica e normativa nasce dal ritenere che l’individuazione delle supposte diversità morfologiche nei diversi tessuti storici, dovute alla specificità dei vari assetti urbani succedutisi nel tempo, renderebbe l’intervento conservativo sulle singole proprietà più attento e meglio corrispondente ai fini delle strategie operative da adottare per un più pertinente e differenziato controllo dei valori storici esistenti. Tutto ciò parrebbe valido se la pretesa metodologica la si potesse ritenere disciplinarmente corretta e culturalmente fondata.

Tale studio viene infatti giustificato dagli estensori del Piano come essenziale per poter meglio stabilire le individue peculiarità dei luoghi al fine di calibrare con maggior oculatezza i modi di intervento per tutelarne più rigorosamente le singolarità sia di impianto sia d’insieme, a seconda del tipo di spazio urbano che contraddistinguono.

Tali assunti, se pur condivisibili a livello problematico e interessanti certamente per un buon seminario universitario, rimangono, però, a livello di enunciati di principio non incidendo sostanzialmente sull’operatività del progetto rivestendo poca rilevanza oggettiva atta a giustificare la divisione crono-morfologia per epoche; e ciò per l’impossibilità concettuale, di principio prima e di metodo poi, di poter determinare categorie d’intervento così astrattamente diversificate in un unico macrocontesto urbano come è quello della città storica di Roma che è stato trasformato, modificato e riprogettato più volte nel corso dei secoli.

Tali ambiti sono stati articolati nel PRG in tessuti di origine medioevale, di espansione rinascimentale e moderna preunitaria, di ristrutturazione urbanistica otto-novecentesca e via classificando fino a quelli di espansione novecentesca con impianto moderno e unitario (art. dal 21 al 29 del Capo 2°, Titolo III), con una sinteticità che lascia attoniti.

Un siffatto innovativo approccio culturale viene inoltre, non senza compiacimento, presentato come alternativo alle metodologie tradizionali tese soprattutto a definire, secondo il parere degli Estensori del Piano, i diversi gradi di intervento applicabili direttamente ad ogni singolo edificio, mentre sarebbe stato opportuno procedere più correttamente per approssimazioni successive, sempre più mirate e guidate, per poter meglio essere capaci sia di ridurre gli “errori” insiti in giudizi così troppo particolareggiati e aprioristici e sia per inserire ogni valutazione di merito in un ambito meglio differenziato, quale è, appunto, quello del tessuto urbano nel quale l’edificio stesso si inserisce onde raggiungere risultati operativi più coerenti per morfologia e tipologia.

Eppure se la cultura italiana della conservazione urbana, anche in tempi recenti, non si è mai posta questo problema nei modi così come sono stati espressi dal nuovo PRG di Roma qualche motivo dovrà pur esserci ed è assai strano che nessuno nell’Ufficio di Piano non se ne fosse chiesta la ragione e non avesse riflettuto sul perché.

A giudicare dagli elaborati prodotti al riguardo e da tutto ciò che in merito è stato scritto dagli Autori, nonché da quanto conseguentemente prevedono le NTA, si rimane a dir poco disorientati per la sommarietà di un metodo che ha dato (e non poteva che essere altrimenti per la debolezza degli assunti di partenza) risultati così poco lusinghieri, come testimoniano gli stessi indirizzi normativi contenuti negli articoli del Capo 2° sopra richiamati del tutto privi di qualsiasi significativa rilevanza regolamentare nei confronti della certezza della norma e quindi della certezza del diritto, per operare con coerenza nel rispetto di chiare e precise prescrizioni operative; e ciò senza discutere la fondatezza concettuale e l’assunto storico-critico di tali principi la cui unica razionalità, alla luce dei risultati conseguiti, consiste propio nella loro diffusa irrazionalità di fondo.

A cosa serve individuare, come indicano gli elaborati grafici e le NTA al Capo 2° Titolo III, i diversi tipi di tessuto della città storica quando poi questi vengono definiti e descritti con modi così analoghi, generici e ordinatori tali da costituire una sorta di assemblaggio frutto di descrizioni ripetitive foriere talvolta di suggerimenti operativi spesso contraddittori e così poveri di contenuto e tanto intercambiabili da essere facilmente equivocati o peggio elusi.

La stessa definizione che viene data dei diversi tessuti è costantemente vaga e onnicomprensiva ed è tale da rendere quasi nulla la stessa credibilità scientifica e culturale dei suoi assunti, senza contare le difficoltà interpretative che conseguono dalla lettura delle norme e che possono dar luogo ad infinite controversie.

A cosa è servito, infatti, suddividere la città, con una grossolanità senza pari, in ambiti territorialmente così arbitrari, sommari e schematici individuandovi supposte quanto improbabili differenziazioni, improvvidi caratteri distintivi e ipotetici assetti tipomorfologici, quando poi le NTA, per ogni tessuto così tassanomicamente sezionato, comportano interventi quasi del tutto indifferenziati, praticamente intercambiabili, sovrapponibili quando non inutilmente ripetitivi? Da dove deriva una siffatta metodologia così narrativamente descrittiva ritenuta avanzata e innovativa se rende inutile, esemplificativa e superficiale una normativa che ben altre e più accorte attenzioni avrebbe dovuto riservare alla città storica? Che senso ha, ad esempio, per tutti gli articoli che vanno dal 21 al 29, tentare con le NTA di elencare arbitrariamente quali sono le presunte peculiarità proprie delle singole zone ricercandole nella cronologia e nella morfologia ritenute sintomatiche per definire le varie individualità edilizie, giustificando in tal modo ciò che non può mai essere distinguibile sul piano degli interventi conservativi ne’ storicamente ne’ architettonicamente, quando bastava articolare meglio ciò che è già così chiaramente e attentamente espresso dall’attuale cultura storico-critica del restauro, i cui principi sono ben noti da decenni agli studiosi del settore?

Perché, infine, tanta superficialità nel teorizzare pedagogicamente ipotetiche differenziazioni tra i diversi tessuti e al loro interno tra i diversi edifici, per non accennare a quelle divisioni risibili tra morfologie e tipologie, invocando, a giustificazione di tali assunti, Studi autorevoli che in materia sono stati seriamente svolti con ben altra dottrina e competenza anche se qualche lettore superficiale ne rivendica oggi continuità non dovute?

Concludendo, ma ci sarebbe ancora molto da dire se si entrasse nell’esame dettagliato delle indicazioni del Piano e nel particolare contenuto di ogni sua singola norma, occorre ribadire che la tanto declamata novità presentata come “originale” per aver proposto il congelamento della metodologia tradizionale per lotti o per edifici, rimandandola ad una fase successiva d’approfondimento diretto, a tutto vantaggio del prioritario riconoscimento dei caratteri d’omogeneità dei “tessuti” e degli “spazi” storicamente significativi, non aiuta a sottolineare il pur alto livello di innovazione culturale e disciplinare che tale PRG possiede in gran parte, ad esempio, sia per le stesse aree della città storica che per le serie attenzioni poste per la città consolidata e per la città da ristrutturare. Forse si è trattato di un eccesso di entusiasmo e di zelo per analisi fine a se stesse e che hanno creato più problemi di quanto in realtà volessero eliminare. Le NTA soffrono infatti di questa impostazione velleitaria e fanno l’impossibile per rendere articolato e credibile ciò che è di impossibile articolazione operativa e di difficile credibilità concettuale.

Tuttavia , anche ciò che viene criticato come improprio non deve mai essere considerato inutile. Il Piano Regolatore di Roma è un episodio troppo rilevante e troppo significativo nelle storia della Roma contemporanea e costituirà certamente un punto di riferimento essenziale per l’avanzamento della stessa cultura urbanistica e per la prassi disciplinare dei nuovi Piani in Italia. Altre critiche e diverse opinioni matureranno e si confronteranno traendo spunto dai contenuti espressi dal nuovo strumento urbanistico della Capitale. Molti altri problemi verranno alla luce; essenziale è però riconoscere l’ufficio che gli “errori” comunque esercitano in ambito tecnico e scientifico per il conseguimento di nuovi saperi e per il raggiungimento di nuove frontiere. Vale forse la pena di ricordare a tale proposito che Hegel affermava che l’“errore” è la molla dello svolgimento della vita e del progresso e che là dove manca la dialettica, l’opposizione o la lotta, “la Storia mostra bianche le sue pagine”. E ciò viene ricordato senza alcuna ironia.

Roma, marzo 2002

GLI ABACHI E LE GUIDE DEL PRG PER GLI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE

La rivista ha già posto l’accento sulla cd novità di questo nuovo PRG di Roma sia per la dimensione data alla conservazione, che superando il limite del riferimento esclusivo al centrostorico così come tradizionalmente inteso lo estende a tutto il sistema territoriale urbano ed extraurbano della Città anche al di fuori della cinta delle mura aureliane, e sia per la ritenuta originalità degli assunti metodologici del nuovo Piano. Questi ultimi risiederebbero nel superamento della normativa di conservazione per lotti o per edifici che viene rimandata ad una fase successiva d’approfondimento diretto, a tutto vantaggio della priorità del primario riconoscimento dei caratteri individui d’omogeneità dei “tessuti” e degli “spazi” cronologicamente significativi, necessaria cornice di riferimento urbano e morfologico per ogni intervento di dettaglio in campo edilizio.

A parte la condivisione per il primo assunto, dato che da tempo il superamento di tale impostazione culturale è regola pressoché generale da alcuni decenni e non ha oggi più nulla d’originale, allo stato, desta qualche perplessità se non profondi dubbi proprio la metodologia operativa adottata per tessuti, così come è stata presentata nella relazione d’accompagno e regolamentata con le NTA. Non si comprende, infatti, a cosa possano servire analisi descrittive talvolta così acriticamente classificatorie, di taglio sommariamente urbanistico non mirate a cogliere la specificità degli aspetti architettonici perché redatte a scale troppo generalizzanti per la verifica degli aspetti qualitativi, pur con l’intesa, come sopra ricordato, che tali aspetti verranno demandati, nel dettaglio, a fasi successive di approfondimento operativo, anch’esse però non sufficientemente chiarite dal PRG.

Non si comprende, in definitiva, quale potrà essere il nesso di continuità tra i diversi livelli di analisi e l'effettivo momento in cui scatteranno le valutazioni operative di Piano sia della prima fase sia della seconda, e quale correlazione ci potrà essere tra di esse stante i diversi tempi e le controverse conoscenze che condizioneranno le due fasi operative.

Al riguardo, tuttavia, occorre essere molto cauti nell’esprimere un inappellabile giudizio di critica dato che i documenti cui si fa riferimento debbono pur superare la verifica della loro effettiva applicazione ed interpretazione. Ciò pur tuttavia non elimina alcuni interrogativi su come l’Amministrazione comunale intenderà perseguire, in fase attuativa, gli obiettivi della conservazione, anche se occorre dare ampio credito ai Consulenti che hanno operato come coordinatori sia degli studi sia delle proposte di Piano, essendo particolarmente esperti della materia e certamente ben consapevoli di come occorrerà procedere in tale campo. Si farebbe indubbiamente loro torto immaginando che abbiano trascurato o non si siano accorti di come sia stato elaborato il Piano per la città storica, ma sta di fatto che esso attualmente risulta abbastanza indeterminato nelle NTA e privo talvolta di attendibilità culturale in alcune analisi specifiche che avrebbero dovuto avere come fine il massimo perseguimento della più rigorosa conservazione dei caratteri storico-qualitativi del territorio. Incrociando le analisi con la relazione d’accompagno del Piano e con le NTA non si evince una linea certa e coerente di azione, pertanto non è possibile garantire pareri certi, criticamente fondati, effettivamente riconoscibili come originali e innovativi, essendo estremamente tortuoso e complesso il disegno strategico, progettuale e normativo d’insieme.

Colpisce negativamente, pertanto, l’enfasi e la costante sottolineatura che si è posta sull’ originalità e sull’ innovazionemetodologica che esprimono l’insieme degli studi prodotti in questi ultimi sei anni, come se essi costituissero una scelta epifanica nella cultura della conservazione delle città storiche italiane. Stupisce tale affermazione perché tanta novità da una parte non è altro che quella che normalmente è già contenuta da qualche anno in molti strumenti urbanistici (non è certamente Roma che oggi scopre questo nuovo modo di procedere e ciò è bene ricordarlo perché tutto il compiacimento che sorregge la convinzione di essere per la prima volta all’avanguardia in Italia nel campo della metodologia della conservazione per l’estensione della tutela dal “centro” alla “città” storica lascia, francamente, alquanto indifferenti) e d’altra parte è priva, concettualmente e tecnicamente, di alcune fondamentali certezze operative quando si affronta il problema dei tessuti, per non parlare degli equivoci interpretativi che possono scaturire da parte degli operatori dall’interpretazione scorretta, anche in malafede, degli abachi e delle guide.

E’ bene, comunque, riflettere con maggiore attenzione su quanto di più preciso e specifico verrà prodotto in materia in sede di gestione operativa del Piano e si dovrà aspettare l’intero compimento dell’operazione storico-critica in programma, prima di poter giudicare con compiutezza di pensiero l’intero disegno operativo che è alla base degli studi di Piano. Per ora è possibile solo formulare alcune semplici osservazioni sulla base delle conoscenze disponibili con gli elaborati e con le NTA del PRG.

Per cominciare, ci sono due ordini di perplessità che nascono dalla lettura del Piano, uno di carattere metodologico e l’altro di carattere operativo.

Partiamo da quest’ultimo. La mole degli elaborati redatti per la città storica, comprese le analisi, è certamente considerevole. Trattasi indubbiamente di uno studio molto approfondito sull’evoluzione urbanistica del territorio romano, molto ambizioso per gli obiettivi che vuole raggiungere e che certamente, per debito di conoscenza, andava eseguito mancando finora all’Amministrazione capitolina uno studio siffatto. Tale studio può rappresentare quello che in altre metropoli europee è già da tempo una realtà. Esso pertanto dovrebbe costituire la base, continuamente aggiornata, per un futuro Centro di Documentazione sull’evoluzione urbanistica della capitale dato che, occorre ribadirlo, non sembra molto pertinente per le conoscenze necessarie su cui basare la pianificazione di dettaglio della città storica. Non si vede, infatti, quale potrà essere il nesso logico tra alcune narrazioni storiche, talvolta genericamente acritiche, e l’operatività normativa che ne dovrebbe conseguire per coerenza e logica derivazione in termini di restauro, risanamento, riqualificazione o trasformazione degli spazi, dei tessuti e degli edifici di valore storico. L’insieme degli studi prodotti, tuttavia, malgrado tali perplessità non è da ignorare costituendo di per sé già un corpus documentario assai significante per la conoscenza della storia urbana di Roma. Tutto ciò è estremamente importante e apprezzabile e non va considerato concluso con l’adozione del PRG dato che occorre continuare ad aggiornarlo, correggerlo, perfezionarlo e integrarlo nel tempo. Tali elaborati, comunque, sembrano nascere più da una struttura culturale adusa a coltivare l’interesse documentario e museale della città in connessione con la sua specifica identità territoriale, piuttosto che da una struttura operativa disciplinarmente preordinata alla progettazione degli interventi di PRG. Tali studi, infatti, sono in parte assai poco significanti per la formulazione di giudizi specifici su cui fondare le modalità operative d’intervento e di ciò è testimone anche la generica normativa di riferimento per “tessuti”.

E’ fondamentale capire, in ordine agli interventi ammissibili e alle relative richieste di autorizzazione che avanzeranno a cassetto i proprietari dei singoli alloggi, come i documenti di Piano e le NTA potranno effettivamente contribuire alla comprensione corretta di come applicare in pratica i principi della conservazione, edificio per edificio, alloggio per alloggio. L’insieme degli studi è in troppe indagini così discorsivo da sembrare poco interessato a chiarire le vere finalità progettuali di tali ricerche ed è vago quando deve specificare esattamente le necessarie connessioni con le previste scelte di Piano.

Le planimetrie di analisi e di riferimento per la città storica alimentano in proposito tali dubbi, non ravvisando in esse una qualche effettiva e diretta operatività in campo propositivo. La stessa cartografia non aiuta e appare del tutto ininfluente per la definizione degli interventi conservativi in quanto i vari tematismi sono sinteticamente rappresentati ed espressi in scale 1:25.000 o 1:10.000; scale queste che per la loro dimensione rendono improbabile qualsiasi definizione specifica o valutazione critica sulle finalità degli interventi attuativi. Interventi che certamente a scale di maggior dettaglio avrebbero meglio e più utilmente puntualizzato gli obiettivi da raggiungere. Non è un caso se analoghi studi sono già effettuati da tempo in altre città, in scale più adeguate (1:1.000 o 1:2.000).

Roma, con le analisi redatte in merito, se lo avesse voluto, avrebbe potuto scendere con maggiore incisività nello specifico per definire regole di tessuto più precise.

Altra meraviglia, infine, desta la critica, francamente sterile quanto ingenerosa e contraddittoria, che la relazione d’accompagno esprime sull’inutilità dell’apposizione di vincoli diretti su singoli edifici! Se questa è la terza grande “novità” di quest’ innovativo progetto culturale, occorre aspettare con interesse cosa esso, in pratica, possa esprimere di nuovo o di meglio per la tutela dell’edilizia storica della città. Si afferma, infatti, che non si deve più intervenire a priori, sulla base di metodiche normative riferite solo a singoli edifici, caso per caso, ma che tali metodiche, sia quelle conoscitive sia quelle propositive, debbano essere affidate all’interpretazione guidata dell’operatore, al momento della richiesta dell’intervento. Il fine è probabilmente corretto volendosi con ciò garantire una descrizione analitica più precisa dell’organismo architettonico per una più minuta valutazione degli interventi ammissibili. Forse tutto ciò potrebbe anche essere condivisibile nelle finalità ma diventa estremamente pericoloso quando tale cautela viene guidata e supportata da abachi e guide di carattere genericamente descrittivo, generalizzanti, entro i quali far convergere ogni giudizio operativo.

Roma, aprile 2002

PROBLEMI DI METODO E DIFFICOLTA’ INTERPRETATIVE PER IL RESTAURO URBANO NEL NUOVO PRG

La prevista utilizzazione di abachi e guide al fine di indirizzare più correttamente gli interventi attuativi riferiti caso per caso a singoli edifici o alloggi è una procedura del tutto nuova e non vi sono altri riscontri nei Piani allo studio in altre città per cui è auspicabile che tale “dottrina” non proliferi. Essa si basa su un preliminare elaborato urbanistico finalizzato a definire valori normativi o di massima di natura metaprogettuale a livello di “tessuti” o di “spazi”, rimandando ad una successiva indagine, di carattere edilizio, la scelte più idonee a livello architettonico.

Francamente non si riesce a capire quale sia l’obiettivo che si vuole raggiungere con tale procedimento perché se è pur vero che le indagini tradizionalmente svolte per la conservazione in campo urbanistico sui singoli edifici, tramite l’applicazione di giudizi di valore espressi caso per caso, possono essere carenti nell’informazione essendo l’esame limitato alla sola morfologia senza alcuna possibilità a priori di verifica tipologica o storica dell’intero organismo, è pur vero che il semplice rinvio in una seconda fase a forme d’analisi più dettagliate di conoscenza, preordinate allo scopo mediante astratti schemi riferiti ad abachi e guide, è dubbio che possa essere concettualmente accettabile a livello culturale e che possa dare buoni risultati operativi.

Abachi e guide indirizzano lo studio storico-critico con formule schematizzanti ed astratte del tutto indifferenti all’individualità del singolo organismo edilizio che viene così ricondotto forzosamente entro classi di riferimento incerte e generiche prefissate anticipatamente, riconducendo fideisticamente ogni manufatto ad un suo ipotetico schema archetipo.

Questo metodo è una prassi, ben nota da tempo, imputabile ad una certa cultura architettonica romana che crede di poter stabilire a priori cosa è bene fare per intervenire sugli organismi antichi grazie al conforto di una deleteria manualistica generalizzante di stampo positivistico o, peggio, deterministico nata alla fine degli anni ‘70. Siffatto pret a porter progettuale si basa su generici suggerimenti tecnico-descrittivi che dovrebbero garantire, secondo gli autori, interventi corretti e certi su ogni singolo manufatto, ignorando che le loro diversità di tipo, di crescita, di assetto, di forma, di storia e di struttura non possono mai essere fatte rientrare entro le griglie di tipi edilizi troppo rigidamente prefissati. Tale programma può essere gravemente fuorviante se assume le caratteristiche incontrollate e generiche del fai da te interpretabile acriticamente. Questi “Bignami” della storia edilizia e del cosa occorra sapere per ben costruire costituiscono un formulario esemplificativo la cui velleità, nello stabilire famiglie di “tipi” per classi di edifici, omologa il restauro al più basso livello del sapere scientifico. Essi generalizzano e schematizzano la complessa stratificazione e la specifica individualità che il tempo ha suggellato in ogni architettura sia calpestando la storia che non è mai riconducibile a classi, generi, tipi, abachi, ecc., e sia mortificando la conoscenza storico-critica che deve sempre poter guidare ogni intervento progettuale. La specificità di ogni organismo è unica, irripetibile e diversa da edificio a edificio, anche se questi fossero affini per caratteri tipomorfologici, diverse essendo le loro singole storie, mai condizionate a priori da sviluppi di stampo evoluzionistico come gli abachi e le guide vorrebbero meccanicamente far credere.

L’unico elemento incontrovertibile che affiora dagli studi, così come sono stati impostati, è quello che stabilisce in un primo momento indirizzi normativi più “ordinatori” che “prescrittivi” ed, in un secondo momento, quelli più “cogenti” risultanti dalle successive indagini sul campo calibrate sulla specificità dei singoli edifici, eseguite dagli operatori e preguidate da schemi e tavole sinottiche di riferimento aventi valore orientativo e valutati solo con il controllo a posteriori dell’Amministrazione che si esprimerebbe sulla fattibilità o meno dell’intervento previsto sulla base di non meglio chiariti riferimenti regolamentari troppo fugacemente indicati nelle NTA.

Per ora il Comune si è limitato a fornire lo strumento generale, necessario per l’applicazione di questi ulteriori criteri analitici, attraverso l’individuazione di microzone urbane la cui supposta omogeneità di tessuto o di spazi è tutta da dimostrare se non la si riconduce, come già detto, all’individualità delle singole architetture. Anche quest’assunto, per quanto è dato di capire dalle analisi, rappresenta, tuttavia, un’ulteriore semplificazione estremamente fuorviante.

In sostanza questi studi, che possono essere anche interessanti, come già riconosciuto, per l’approfondimento delle conoscenze urbanistiche del territorio e che costituiscono tutt’al più una lodevole premessa indicativa per orientare gli operatori nel proporre modi d’intervento omogenei e coerenti, non sembrano però garantire il necessario supporto prescrittivo che dovrebbe presiedere ad ogni operazione di recupero nel delicato passaggio dall’inquadramento generale alla specificità progettuale riferita ad ogni singolo manufatto.

Da questi dubbi sorge allora spontanea la domanda sull’utilità di tali studi propedeutici visto che le loro finalità sono così sfuggenti o comunque così estremamente labili e generiche; dubbi più che leciti dopo le grandi attenzioni che l’Ufficio di Piano ha posto per così lunghi anni alla costruzione di indagini specifiche sulla città storica.

Il complesso di queste indagini è, infatti, solo marginalmente e indirettamente utile per gli approfondimenti richiesti dagli interventi di conservazione. Tali interventi e le relative norme non dovrebbero derivare da studi condotti su microzone urbane individuate per la loro presunta peculiarità a livello urbanistico ma, piuttosto, avrebbero dovuto nascere da un approfondito esame storico-critico sufficientemente analitico, condotto su ogni singolo edificio, senza l’ausilio di siffatti pedagogici sussidiari contenenti astraenti riferimenti privi di qualunque plausibile raccordo con i caratteri di individualità delle singole storie edilizie.

Quello che soprattutto non si comprende di quest’ambigua metodologia è l’esito futuro che l’intervento potrà assumere stante l’attuale vago riferimento che le norme tecniche di attuazione pongono all’intera operazione. Queste potevano essere costruite in modo meno narrativo e redatte con maggiore chiarezza nell’interesse della certezza del “cosa fare” e del corretto “saper fare”.

E’ stato più volte ricordato che questi studi denotano una qualche attenzione per le conoscenze espositive di carattere urbanistico generale e assai meno per quelle analitiche di carattere storico-critico. Ciò viene sottolineato senza ombra di dubbio anche da alcuni documenti dell’Amministrazione capitolina (giugno ’99) quando si segnala come fatto positivo il definitivo superamento delle vetero indagini dirette solo sui singoli edifici, a tutto vantaggio di studi innovativamente volti ad indagare gli spazi ed i tessuti storici. Prendiamo, ad esempio, il caso di Piazza Navona, di Piazza di Spagna o di Piazza Farnese; tali luoghi sono sia spazi urbani sia contesti di tessuti sincronici non disomogenei morfologicamente, anche se spesso eterogenei tipologicamente. Tali spazi e tali tessuti non essendo tra di loro coevi non sono mai stati a priori determinati figurativamente da un prefissato e unitario impianto urbanistico. Tale impianto invece si è sviluppato nel tempo, rimodellando il già esistente in modo lessicalmente coerente, assecondando l’evoluzione tipologica e morfologica delle singole architetture, in forma sincronica secondo le esigenze d’uso e di espressione delle varie epoche. Il risultato è stato che le loro morfologie hanno connotato totalmente l’ambiente delle tre piazze anche con non trascurabili violenze alla logica dei tessuti (es. Palazzo Farnese, Chiesa di S. Maria in Agone, ecc.) pur nelle singolarità delle diverse caratterizzazioni estetiche, storiche o morfo-tipologiche. Si richiama tutto ciò solo per ricordare che, in definitiva, sono le architetture i soggetti principali che conformano nella città storica gli spazi urbanistici e che danno a questi ultimi specifica riconoscibilità d’insieme e non i soli tessuti. Non è lo spazio urbanistico che sottolinea l’identità singolare delle architetture storiche nel loro variegato e autonomo aggregarsi per tessuti o per spazi, anche se questi ne compongono la scena primaria di riferimento urbano. Se è così bisognava, allora, far convergere più specificatamente l’attenzione degli studi di Piano sui caratteri qualitativi dei singoli organismi architettonici perché solo questi ultimi avrebbero potuto dare sufficienti garanzie d’identità e di coerenza, se pur a priori, per il controllo urbanistico degli aspetti figurativi degli spazi e dei tessuti. In sostanza andava capovolta l’impostazione concettuale che ha presieduto agli studi sulla città storica; sarebbe stato meglio partire prima dagli edifici per poter più chiaramente ragionare poi sui criteri di intervento per il rispetto dell’omogeneità formale dei tessuti. Le analisi sarebbero state certamente più complesse e forse più rischiose in termini di veridicità ed avrebbero anche richiesto conoscenze molto più approfondite sulla storia edilizia romana ma a tutto ciò avrebbe posto rimedio una normativa meglio articolata e più mirata agli obiettivi da perseguire con il Piano. Gli esempi al riguardo non mancano in altri Comuni e i Consulenti sono eccellenti conoscitori di tali problematiche.

Come faranno le regole normative di riferimento a stabilire, con coerenza ed equilibrio, i gradi di flessibilità che potrebbero essere ammessi tramite il filtro delle guide e degli abachi, quando questi tendono per loro natura a irrigidire la conoscenza classificando la storia edilizia astrattamente, con il deleterio risultato di trasformare una non minoritaria parte degli operatori, così poco allenata alla ricerca storico-culturale, in subalterni interpreti di schemi di base o in ripetitori passivi di una manualistica troppo rigidamente pragmatica che nata per orientare le conoscenze preliminari può divenire il passe-partout di qualsiasi progetto asetticamente “tecnico”, assicurando a tali operatori la falsa certezza di possedere quel sapere che solo una laurea specialistica e studi ben più attenti possono fornire.

Può darsi, alla luce dell’applicazione futura, che tale metodologia possa considerarsi anche opportuna, ma ciò lo potrà essere solo se gli operatori riusciranno a superare la fragilità critica della lettura per tessuti e per spazi per affrontare più razionalmente la conoscenza degli organismi edilizi sulla base di più significativi paradigmi di riferimento storico-qualitativi, definiti caso per caso omogeneamente, anche se tali analisi possano essere comprensive di potenziali errori di stima, sempre però controllabili a posteriori con una adeguata normativa. Sarebbe stato molto meglio quindi predisporre un Piano redatto diversamente, con più chiare linee d’intervento, per poter indirizzare prima e verificare poi la giustezza delle proposte degli operatori anziché demandare subito la supposta certezza degli interventi ad una sorta di “breviario della conservazione” grazie al quale si possono solo dare risposte ai problemi sollevati da quell’incultura connessa all’incapacità professionale di tecnici troppo spesso dequalificati anche per una colpevole insufficiente formazione universitaria.

La manualistica del fai da te è, infatti, nel settore della conservazione, deleteria. Le guide e gli abachi, così come suggeriti, ma anche gli studi approntati per il PRG, non raggiungono quasi mai gradi di consapevolezza critica e culturale tali da poter garantire un sufficiente risultato di qualità per gli interventi di restauro e di risanamento conservativo. Essi, occorre ripeterlo, sono troppo schematici, astraenti nei tipi e sommari nelle proposte. Come si comporteranno gli Uffici quando dovranno, per casi analoghi, verificare la coerenza e la conformità di diversi studi e progetti ai principi del Piano?

Per finire, si parla spesso nella relazione al PRG anche di esempi a proposito degli abachi e delle guide. Questi possono essere accettati come strumenti esemplificativi se vengono posti in un’antologia di studi volti a fornire un semplice inquadramento su argomenti genericamente esposti, ma non vanno più bene quando l’esempio vuol essere il riferimento operativo speculare per tutti gli altri casi analoghi, ammesso che tale ipotesi possa considerarsi realistica, il ché non lo è. L’esempio è esempio solo di se stesso e non può essere trattato alla stregua di un generico salvacondotto collettivo per la totalità di edifici similari. Per la serietà delle indagini storico-critiche tutto ciò è un palese controsenso e per il PRG di Roma un mezzo passo indietro nelle aspettative che vi avevano riposto non pochi urbanisti che si attendevano per la città storica di Roma nuovi più incisivi capisaldi culturali, se non altro per ridare slancio ad una metodologia che con R. Pane, L. Piccinato e G. Astengo è stata anticipatrice indiscussa dentro e fuori l’Italia dei più rigorosi metodi di restauro urbano.

Roma, maggio 2002

UN CONCORSO INTERNAZIONALE DI IDEE PER IL QUARTIERE DI SAN LORENZO A ROMA

La “Costruttori Romani Riuniti Grandi Opere SpA”, che raccoglie 250 imprese edilizie, nell’ambito delle iniziative indicate dall’ACER, ha lodevolmente promosso un Concorso di Progettazione Internazionale allo scopo di individuare per il Quartiere di San Lorenzo quali potrebbero essere le trasformazioni possibili per assicurare un qualificato rinnovo urbano ad una delle zone più delicate e significative della Capitale.

Tale apprezzabile iniziativa ha riscosso l’interesse di 55 partecipanti rappresentativi oltre che dell’Italia anche di molti Paesi Europei ed Extraeuropei i cui risultati sono stati pubblicati nel marzo 2001 dall’Editore Gangemi.

Concorsi siffatti, soprattutto quando hanno una forte incidenza urbanistica sull’intera città, sono da stimolare e da incentivare dato che la cultura urbanistica non può fare a meno di confrontarsi ed interrogarsi incessantemente sui grandi temi urbani legati alla riqualificazione e trasformazione di aree urbane così importanti per centralità funzioni rare e degrado come è nel caso del quartiere di San Lorenzo.

Encomiabile dunque appare l’iniziativa tesa a scandagliare, da parte degli Imprenditori, quali possano essere le soluzioni più interessanti per attivare o promuovere programmi complessi o per suggerire all’Amministrazione Capitolina iniziative da intraprendere nell’interesse congiunto del Pubblico e del Privato.

Tali Concorsi, tuttavia, se non inquadrati entro un bando estremamente articolato, finalizzato al raggiungimento di precisi risultati operativi sulla base di linee guida orientative assolutamente chiare, producono problematiche più interessanti per la cultura architettonica che per gli operatori.

Nel caso in questione i progetti presentati, salvo pochissimi casi, contengono una serie di proposte volte più a soddisfare un indefinito interesse per la ricerca di soluzioni originali fine a se stesse che un reale interesse per la risoluzione dei problemi del quartiere, il ché non collima con gli interessi del Concorso vista anche la figura imprenditoriale di chi lo aveva bandito.

Quasi tutti i Concorrenti hanno espresso idee urbanisticamente interessanti, talvolta originali seppure difficilmente perseguibili e tali comunque da stimolare confronti dai quali non può che avvantaggiarsene il dibattito culturale ma che spesso allontana le proposte, anche le più serie, da una ricaduta progettuale concretamente fattibile. Forse, sarebbe stato il caso, per concorsi di area vasta come questo e di così ricca complessità, di segnalare ai Concorrenti, più di quanto non sia stato fatto, gli indirizzi e gli obiettivi parametrici e quantitativi da rispettare o quanto meno da perseguire anche migliorandoli. Troppo spesso i partecipanti hanno seguito propri autonomi percorsi culturali che per professionalità, formazione, storie e orientamenti i più diversi lasciano molto a desiderare circa gli esiti auspicati. Forse ciò lo si poteva in parte attenuare se fosse stato loro meglio indicato quale doveva essere il tipo di risposta che ci si attendeva pur nella libertà della ricerca progettuale. Lo studio della “forma urbana” non può essere separato dai modi con i quali il progetto lo si può realizzare! Il problema che non appare affrontato riguarda infatti le modalità operative atte a garantire una pur minima ma convincente credibilità economico-finanziaria alle trasformazioni proposte. A risultato concorsuale ormai concluso sarebbe interessante capire quale utilità ne abbiano ricavato gli Imprenditori promotori dell’iniziativa. Di fronte alle pur interessanti proposte fornite dal ristretto gruppo dei vincitori nascono però alcuni interrogativi che vale la pena di esprimere per riflettere sia sulla validità di un approccio concorsuale siffatto e sia come si debba procedere per sciogliere i nodi che attualmente in Italia ancora frenano interventi di così ampio respiro.

Ad esempio, è o no il caso di gestire l’intera operazione attraverso lo strumento della perequazione urbanistica? Infatti, due sono le domande che nascono dalle proposte di trasformazione ipotizzate dal Concorso. Esiste un Promotore Immobiliare capace di intraprendere una riqualificazione urbana così ampia in un lasso di tempo ragionevolmente breve certo che il risultato gli darà un ritorno economico maggiore di quello che già si potrebbe ottenere con le normali offerte del mercato immobiliare della zona? Inoltre è certo per le frammentate proprietà immobiliari (ed escludendo per brevità quelle degli Enti Pubblici gestite da amministrazioni tra loro diverse), così pesantemente coinvolte dalle proposte del Concorso, che tutto ciò sarebbe un ritorno, a operazione conclusa, economicamente significativo e tale da valorizzare sostanzialmente il loro patrimonio così da indurle ad aderire all’iniziativa senza creare resistenze o contenziosi di sorta?

Non c’è alcuna garanzia, neanche normativa o regolamentare che le riqualificazioni urbanistiche proposte possano rispecchiare positivamente la domanda di qualità urbana della zona dato che essa non comporta automaticamente certezza di qualità architettonica degli spazi e degli edifici previsti; ed anche questo incide sul ritorno economico, soprattutto se l’attuazione unitariamente programmata si interrompe e si realizza solo una parte del progetto, cosa non infrequente visti i tempi lunghi che implica un’operazione urbana di tale portata. E’ certo comunque che una siffatta operazione non la si può affrontare o pensare di realizzare con l’esproprio e con i conseguenti piani attuativi più o meno definiti da comparti omogenei. Non è neppure praticabile l’idea di acquisire le proprietà immobiliari interessate all’operazione pagandole al prezzo di mercato. La terza via, quella forse più praticabile oggi, ma è tutta da dimostrare, è quella della cosiddetta “perequazione urbanistica” anche se qualcuno la ritiene praticabile per le nuove espansioni e non per le trasformazioni. Con la perequazione, grazie ad un predefinito indice di edificabilità, sufficientemente flessibile, uguale per tutta l’area interessata alla trasformazione urbanistica, i proprietari rinunciando ad edificare sul proprio lotto rimangono possessori di un credito di mq equivalente al bene da cedere e da utilizzare in area più o meno contigua cedendo nel contempo al Comune a costo agricolo o simbolico le aree residue non oltre edificabili essendo stato raggiunto l’indice predefinito dal Comune.

La rendita fondiaria stabilita con i nuovi parametri renderebbe il proprietario indifferente di fronte alle scelte di piano (ricevendo tutti lo stesso vantaggio senza sperequazioni volumetriche) al netto però delle destinazioni d’uso che possano far variare anche di molto le rendite immobiliari a seconda della loro importanza e rarità.

L’alternativa alla perequazione urbanistica integralmente applicata potrebbe essere l’uso tradizionale delle regole dello “zoning”, limitato a parti ben definite della zona con indici, parametri e destinazioni d’uso prefissate e soggette ai meccanismi propri dell’esproprio o delle normative relative ai cosiddetti “piani complessi”. Così facendo le aree riservate alla perequazione urbanistica fungerebbero da volano di compensazione fondiaria a tutto vantaggio di quei proprietari non totalmente avvantaggiati dalle proposte progettuali. Senza tali indirizzi è quasi impossibile progettare! Se ai concorrenti fosse stata data una tale guida, certamente orientativa ma più precisa di quella espressa nel bando, avrebbero forse previsto con maggiore organicità le soluzioni urbanistiche e financo quelle metarchitettoniche avendo di fronte scenari economici e gestionali con i quali meglio confrontare le proprie scelte progettuali.

Nel caso in esame, infatti, è mancato ai concorrenti quel necessario bagaglio di conoscenze realistiche se pure orientative sul tipo di classificazione dei suoli, di fatto e di diritto, sugli indici da rispettare e sulle destinazioni d’uso richieste unitamente al quadro normativo e regolamentare da seguire in linea di principio. La mancanza di indici edificatori inficia l’intero risultato del Concorso proprio perché paralizza le potenzialità della cosiddetta perequazione urbanistica (pari edificabilità ai proprietari aventi gli immobili nelle stesse condizioni di fatto e di diritto) a tutto esclusivo vantaggio di una interessante esercitazione urbanistica ma dal valore esclusivamente culturale. Dato che con indici elevati l’operazione è sempre appetibile dai proprietari con lo svantaggio, però, di avere meno aree pubbliche e viceversa con indici bassi di avere una migliore qualità di servizi e una minore edificabilità privata, occorreva almeno segnalare nel bando quali erano gli indici edificatori minimi e massimi suggeriti. Si sarebbero legate così le intenzioni imprenditoriali con le scelte progettuali sia di natura morfologica che tipologica oltre che di impianto fondativo.

Quando si interviene con proposte così forti e radicali di ristrutturazione di intere porzioni urbane occorre conoscere bene e dettagliatamente quale obiettivo immobiliare si vuol e si può raggiungere affinché le rendite dei proprietari e l’interesse della città trovino, unitamente a quelli degli operatori, una comune e giusta linea di compensazione senza penalizzazioni per entrambi e con valori coerenti commisurati alle attese che la riqualificazione urbana comporta in termini di maggiori rendite immobiliari.

Non sarebbe stato male consegnare ai progettisti, per meglio inquadrarli nel problema economico, anche una serie di bozze di convenzione-tipo per comparti omogenei per regolamentare modi e forme di intervento pubblico-privato. Si ha l’impressione che con tali assenze il Concorso contribuisca, dati i risultati conseguiti, ad inserire un’altra pagina culturale sulle ricerche urbane svincolata dalla realtà e inadatta a rispondere progettualmente per superare i conflitti che potrebbero nascere da una ristrutturazione urbanistica così vasta. Forse è ora che i concorsi di urbanistica, per evitare le velleità proposte da troppi concorrenti, abbiano anche il conforto di esperti in discipline di economia urbana e che i promotori inquadrino con maggiore determinazione gli obiettivi da perseguire.

Tali osservazioni non tolgono nulla, comunque, alla lodevole iniziativa assunta dai Costruttori Romani Riuniti Grandi Opere SpA ai quali va riconosciuto l’indubbio merito di aver fornito alla città una significativa occasione di riflessione culturale sul futuro di una delle sue aree urbane più vitali e socialmente significative. Sta a loro, ora, riflettere sulle soluzioni più interessanti proposte dai Concorrenti e valutare concretamente le effettive potenzialità dei progetti per un’operazione urbana certamente non procrastinabile, tenendo anche conto della necessità di sensibilizzare le Istituzioni perché si provveda ad una regolamentazione giuridico-normativa di stampo europeo altrimenti mentre a Vienna, Parigi, Londra e Berlino si sono e si stanno attuando ristrutturazioni importanti da noi tutto continuerà a rimanere preda del caso per caso.

Roma, settembre 2002

SI PUÒ REGOLAMENTARE LA QUALITÀ?Le responsabilità del Comitato per la qualità urbana ed edilizia di Roma Capitale

Il Consiglio Comunale di Roma abrogò alla fine del settembre del ’94 l’art. 5 del Regolamento Generale Edilizio e riformulò anche gli artt. 6, 7, 8, 9 e 10 disciplinando in modo del tutto nuovo i compiti, la composizione, le competenze e il funzionamento della Commissione Consultiva edilizia. Successivamente il Consiglio Comunale nel gennaio ’97 ritornò sull’argomento modificando l’art. 6 e abrogando gli artt. 7, 8, 9 e 10 del Reg. Gen. Ed. In tale occasione approvò il “Regolamento Speciale della Commissione Consultiva Edilizia” di Roma, volto soprattutto a snellire l’ iter procedurale dell’approvazione delle nuove categorie di progetti di spettanza della Commissione. Recentemente il Comune di Roma ha ritenuto di dover meglio caratterizzare le competenze di detta Commissione attribuendole anche “funzioni di indirizzo e di guida per orientare le trasformazioni urbanistiche e gli interventi edilizi sia per quanto riguarda la qualità architettonica ed edilizia della progettazione, sia per gli aspetti funzionali e formali delle opere di urbanizzazione ed edilizie ed il loro inserimento nel contesto urbano ed ambientale”. Per tali motivo le funzioni finora attribuite alla Commissione Edilizia sono state attribuite dal “Comitato per la qualità urbana ed edilizia di Roma Capitale” (Legge Reg. Lazio 59/95) che ha anche approvato il relativo Regolamento Speciale per disciplinarne le attribuzioni. Conseguentemente il Consiglio Comunale di Roma nel 2002 ne ha deliberato la sua istituzione modificando l’art. 6 che ne regolava il funzionamento. Sarà quindi compito dell’istituito Comitato dotarsi quanto prima di un proprio regolamento interno per lo svolgimento dei suoi lavori.

Positivo ed apprezzabile appare pertanto l’intento oggi perseguito con tale delibera comunale dato che da oggi sarà possibile contare su di un Comitato di Esperti che oltre a svolgere le precedenti mansioni consultive di natura quantitativa circa la rispondenza o meno dei progetti alle prescrizioni degli strumenti urbanistici dovrà anche assolvere al compito, certamente non facile ma irrinunciabile oltre che doveroso, di esprimere pareri sulla qualità effettivamente espressa dai progetti presentati. Al riguardo l’art. 4 relativo alle funzioni di detto Comitato così recita:

“1. Il Comitato per la qualità urbana ed edilizia elabora, ( omissis) criteri e linee guida per la qualità urbanistica, architettonica ed edilizia della progettazione coerentemente con gli indirizzi e gli elaborati del P.R.G. in corso di adozione, nonché per gli aspetti funzionali e formali delle opere edilizie e per il loro inserimento nel contesto urbano ed ambientale.

2. I criteri e le linee guida, che possono essere contenute in appositi vademecum, sono approvati dall’Amministrazione comunale che ne dovrà garantire l’osservanza sia per la predisposizione dei progetti urbanistici ed edilizi che per la loro istruttoria da parte degli Uffici stessi.”

Come si può facilmente notare la funzione primaria, il prestigio e la rilevanza culturale di tale Comitato, per non costituire un duplicato della vecchia Comm. Ed., saranno caratterizzati soprattutto da come verranno autorevolmente elaborati “i criteri e linee guide” per l’esame qualitativo dei progetti. A tale proposito è però opportuno formulare qualche riflessione in merito, soprattutto per meglio inquadrare per cosa si debba intendere per qualità, urbana od edilizia, onde evitare genericità astraenti o regole aprioristiche pseudopratiche o troppo manualistiche, dato che qualsiasi qualità, per definizione, non è mai riconducibile a norme prescrittive e meno che mai può discendere da regolamenti quantitativi, anche se predisposti con le migliori intenzioni e redatti nel massimo rispetto per qualsiasi espressone realmente architettonica. Riflettere su questo punto è necessario anche perché alcuni elaborati gestionali (CD2) del nuovo P.R.G. adottato dal Comune, in particolare sia la cd carta per la qualità (G1) sia soprattutto l’equivoca guida per la qualità degli interventi (G2), pur apparentemente redatti per consentire una corretta grammatica architettonica sottendono equivocamente chiari riferimenti pseudoqualitativi del tutto fuorvianti. Si legga a proposito quanto è stato già scritto sul n° 10 di questa rivista circa i suggerimenti manualistici e generalizzanti previsti dal nuovo P.R.G. per la città storica!

Deve essere comunque ben chiaro che un regolamento che punti a controllare la qualità dei progetti garantendo modi e criteri adeguati per un miglior assetto architettonico ed urbanistico della città è degno della massima attenzione e merita l’apprezzamento di quanti da decenni lottano contro la superficialità di molti professionisti, l’indifferenza di alcuni funzionari e la cecità di certe Commissioni. Un regolamento quindi s’impone, proprio a garanzia di un corretto controllo formale del linguaggio architettonico ma occorre evitare che tale impegno tenda a trasformarsi surrettiziamente in una pseudoguida o in un generico manuale del buon costruire, come sembra invece richiamare l’art. 4 sopra ricordato quando segnala al Comitato l’obbligo nel redigere il regolamanto interno di tener conto degli indirizzi e degli elaborati del P.R.G. e che è possibile predisporre un vademecum per dettare i criteri e le linee guida da far rispettare. C’è da augurarsi che tale regolamento malgrado i riferimenti al P.R.G. sia espressione di un’alta volontà culturale che miri a garantire l’attuazione corretta ed autonoma di validi principi culturali con l’intento, indiretto ma correttamente ineccepibile, di spingere il progettista a curare al massimo soprattutto la qualità linguistica dell’immagine architettonica.

Tale proposito sottende necessariamente una volontà d’azione di natura generale rivelando così la propria natura di volontà astraente che può farle assumere anche connotati ininfluenti e negativi, quasi quelli di un non volere, proprio perché è impossibile culturalmente disciplinare la creatività architettonica in astratto. Si può pensare solo in concreto, esaminando la realtà di ogni singolo progetto e non suggerendo a priori abachi, vademecum o linee guida, tutti binari supposti generatori di sicura qualità, come propone impropriamente il Comune e il P.R.G. assumendo per l’occasione un’improvvida e non dovuta veste di precettore, del tutto fuori luogo.

C’è in sostanza il pericolo assai reale che le determinazioni qualitative di un regolamento così congegnato, si traducano in schematismi applicativi generici ed astratti, cioè irreali, proprio perché nessun pre-giudizio è lecito formulare fuori dal vero giudizio sul singolo caso concreto dato che non è possibile predeterminare in astratto il corrispettivo qualitativo di ogni singolo progetto. Il pericolo infatti è l’ineffettuabilità di un siffatto regolamento che rischia di essere addirittura fuorviante per ogni seria progettazione malgrado l’assunto positivo che potrebbe promuoverlo. Del resto se è difficile che i progettisti possano rispondere punto per punto ai requisiti stabiliti da un sistema di regole così enfaticamente preordinate al controllo della qualità, è altrettanto vero che anche se un edificio si trovasse nelle condizioni previste dalla norma non è detto che essa sia da ritenere, per qualità intrinseca, nei fatti ammissibile e portatrice di qualità. Infatti, anche in tal caso, la norma in apparenza concreta assumerebbe il carattere dell’irrealtà poiché le autonome scelte architettoniche, peculiari in ogni progetto, non possono mai essere ne’ classificate ne’ previste da una norma generale. Il caso singolo, in architettura, è sempre una sorpresa, qualcosa che viene riconosciuto come valido o meno solo quando si esplicita soprattutto nello spazio. La norma qualitativa invece essendo di per se indifferenziata e per sua natura astraente oscilla tra i valori d’indirizzo e quelli di controllo non assumendo appieno mai i valori ne’ dell’uno ne’ dell’altro.

È responsabilità dei progettisti, quelli seri lo fanno, non adeguarsi mai ai regolamenti supinamente ma sempre eticamente, individualizzandoli culturalmente per rispondere solo alla proprio coscienza morale e professionale.

L’utilità, da tutti riconosciuta, di porre mano finalmente a norme regolamentari in tema di qualità edilizia ed urbana dovrà pertanto coinvolgere il Comitato affinché esse non siano astrattamente prescrittive essendo ciò impossibile dato che si attua solo l’atto singolo progettuale ma che siano invece tali da far ricadere il progetto nella gamma di quelle opportunità di correttezza formale che sole possono guidare l’atto singolo progettuale a buon fine dato che l’atto singolo è sempre caso singolo di quanto la norma ha di generico.

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