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IX - USCIRE DALL’OPULENZA
1 Aprile 2004
Urbanistica e società opulenta, Laterza, Bari, 1969
1. Le contraddizioni sociali del processo opulento. Tutti possono rendersi conto, ormai, che il processo opulento suscita dentro di sé, via via che si viene esplicando, tutta una serie di contraddizioni, di spinte, di sollecitazioni, di lacerazioni anche, nelle quali si traduce e si conferma sul piano sociale quella condizione umana di sofferenza angosciosa, di contraddizione oggettiva, di profonda insoddisfazione, che è indubbiamente il più vistoso contrassegno psicologico dei nostri tempi.

I giovani, gli studenti dei paesi nei quali il processo opulento si è maggiormente sviluppato, i figli di quel medio ceto largamente parassitario e privilegiato che è il primo benefìciario dei consumi opulenti, sono stati tra i primi a esplodere e a ribellarsi. Ma la rivolta delle università è soltanto un avvertimento, è un segnale della tensione nascosta sotto le levigate apparenze della «società del benessere». In altri modi, per altre vie, lungo altre linee di frattura possono erompere e liberarsi quelle contraddizioni che lo sviluppo dell’opulenza viene man mano ad accumulare.

Quali sono però queste contraddizioni? Possono esse costituire la base materiale di una politica diretta alla fuoriuscita dai meccanismi dell’opulenza e alla fondazione di un differente sviluppo? Ci proveremo adesso a rispondere a entrambe queste domande.

Ciò che ci sembra di dover in primo luogo sottolineare è che lo sviluppo opulento, nella sua fase iniziale, non si presenta certamente come una realtà capace di superare in modo pieno, e quindi di risolvere effettivamente, le antiche contraddizioni: quelle cioè che in qualche modo costituiscono il risultato cumulativo degli errori, delle parzialità, dei limiti, da cui è stato contrassegnato il processo storico. Anzi, è facile vedere che l’opulenza, proprio per le intrinseche leggi che regolano il suo sviluppo, se certamente perviene a ridurre via via l’incidenza sociale e politica di quelle contraddizioni, può farlo soltanto emarginandole, congelandole, regalandole, per così dire, ai confini della realtà da essa più direttamente dominata: conservandole insomma come sacche, quasi perpetua testimonianza delle parzialità del suo stesso sviluppo.

Si rifletta, ad esempio, sulla grande contraddizione a scala mondiale tra i paesi del capitalismo maturo e i paesi della miseria e della fame: una contraddizione che pesa già gravemente sulle decisioni di politica internazionale dei paesi ricchi, e perciò sulle stesse condizioni del loro assetto interno. Ebbene, è anche troppo chiaro che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, quella contraddizione non può non permanere e non accentuarsi. Nulla invero, del meccanismo e della logica dello sviluppo opulento, può far prevedere che la grande contraddizione a livello mondiale dei nostri tempi possa venir risolta o riassorbita; tutto, anzi, indica il contrario, e precisamente l’inevitabilità, entro il quadro dell’opulenza, di un progressivo approfondirsi di quel pauroso abisso che già spacca l’umanità in due tronconi, con l’esplosione di nuovi eccidi, nuove catastrofi e nuovi massacri.

Si rifletta, ancora, su quella tipica contraddizione che si manifesta nella realtà del nostro paese (ma non solo del nostro), e che investe la campagna e il mondo contadino. È questa, certamente, una contraddizione tipica dello sviluppo capitalistico-borghese, e difatti già i primi utopisti e, più tardi, i fondatori del socialismo scientifico non mancarono di individuarla e di criticarla. Essa non viene però positivamente risolta dallo sviluppo opulento, e viene anzi tendenzialmente eliminata attraverso una secca eliminazione del mondo contadino, al quale oggi viene indicata come unica alternativa la dissoluzione e la definitiva scomparsa, in un processo tumultuoso e spontaneistico che condanna gli abitanti delle campagne a scegliere tra due sole soluzioni, entrambe socialmente e umanamente intollerabili, e perciò gravide di tensioni. Una è quella del restare in una campagna e in un’agricoltura sempre più immiserite ed emarginate; l’altra è quella dell’abbandono disperato della terra, delle tradizioni, della classe, delle abitudini, dei vincoli familiari e sociali -e infine del naufragio nelle squallide periferie urbane e nella condizione tragicamente subalterna del sottoproletario.

Si rifletta, infine, sulla contraddizione implicita nella presente condizione femminile: una contraddizione «classica» ormai nella realtà sociale, ma non ancora nella letteratura, ne nella critica e nell’azione politica. Su quest’ultima contraddizione gioverà soffermarsi con una certa ampiezza, e ciò non solo per la scarsa consapevolezza che per essa hanno finora dimostrato il personale politico e più in generale gli intellettuali nel loro complesso, e che quindi sollecita a un esame più ampio di quello necessario per altre «questioni» ormai entrate nella coscienza comune, ma anche perché nell’attuale condizione femminile è possibile rinvenire una sollecitazione particolarmente significativa a risolvere il problema della città nel modo omogeneo alle tesi che abbiamo dimostrato e alle ipotesi che abbiamo assunto.

2. La questione femminile

La tradizionale condizione femminile (quella condizione la cui presa di coscienza determinò il sorgere del movimento di emancipazione) ha una sua fondamentale caratteristica sociale nel fatto che tutti i consumi che si svolgono nell’ambito familiare vengono organizzati e gestiti dalla donna, la quale, privata di qualunque libertà nella scelta delle proprie opportunità di lavoro, è esclusivamente relegata al ruolo di erogatrice dei servizi necessari a fruire di tali consumi. Una simile situazione (che si risolve di fatto, quali che possano essere le coperture e le mistifìcazioni, in una piena servitù della donna) poteva comunque venir subita tranquillamente e quasi naturalmente, finché il lavoro femminile extra-domestico rimaneva un’eccezione; essa doveva però rivelare tutta la sua insopportabilità umana e sociale quando l’affermarsi della produzione capitalistica, con il suo progressivo allargarsi fino a investire l’ «esercizio di riserva» costituito dalla forza-lavoro femminile, conduceva all’ingresso di quest’ultima, in aliquote sempre più ampie, nell’attività produttiva.

In effetti, all’impiego capitalistico della forza-lavoro femminile non è venuta a corrispondere una sufficiente assunzione, da parte della società, dei compiti del lavoro casalingo. Di conseguenza, nel momento stesso in cui la donna, con il suo ingresso nel mondo del lavoro, ha dato inizio al processo della propria emancipazione, essa ha dovuto però pagare lo scotto d’essere sottoposta a un doppio lavoro: quello della fabbrica, o comunque delle sue mansioni nel processo produttivo al livello sociale, e quello casalingo della ‘gestione domestica.

È appunto per tutto questo, è appunto per liberare la donna dal peso inumano e insopportabile di un simile doppio lavoro, che i più consapevoli settori del movimento di emancipazione, mentre dovevano salutare, come un positivo portato allo sviluppo storico e come una sostanziale affermazione della libertà femminile, l’ingresso delle donne nella dimensione sociale della produzione, dovevano però, al tempo stesso, lottare perché le donne fossero affrancate dalla servitù dell’altro lavoro; perché dunque la custodia e l’istruzione della prole, la cura e la manutenzione degli alloggi, la preparazione dei pasti tutti gli aspetti, insomma, dell’”economia domestica” fossero progressivamente svolti sulla base, nelle forme e con l’efficienza di un vero e proprio lavoro, e non più attraverso la servile supplenza del «lavoro casalingo».

Ma uscire effettivamente dal «lavoro casalingo», organizzare come un vero e proprio lavoro i servizi tradizionalmente svolti dalla donna nell’ambito della famiglia, è evidentemente possibile solo se i consumi cui quei servizi sono ordinati mutano anch’essi radicalmente di segno; poiché è chiaro che i consumi domestici possono essere soddisfatti mediante l’erogazione di un lavoro che sia realmente tale ( di un lavoro cioè pienamente economico, nel senso di qualificato, efficiente, socialmente organizzato), soltanto se escono dall’individualismo che inevitabilmente li caratterizza finche vengono esclusivamente vissuti nell’ambito familiare, e si sviluppano in consumo comune.

Non è questa però - ormai lo abbiamo ampiamente argomentato - la strada seguita dal processo opulento; il consumo individualistico non si muta in consumo comune, ma viene anzi esaltato e sviluppato in modo parossistico e abnorme. Non si realizza perciò quella condizione necessaria, che sola può consentire alla donna di uscire dalla condizione inumana del “doppio lavoro”, senza nulla perdere della conquista raggiunta nel processo emancipatorio. Ma v’è di più. Nella società opulenta le donne non solo non vengono liberate dalla servitù casalinga; esse, mentre vengono ribadite nella loro condizione di erogatrici di servizi domestici, sono contemporaneamente sospinte ad abbandonare quell’unica e decisiva posizione che avevano raggiunto nella loro lotta emancipatoria. Le donne, infatti, vengono indotte dall’opulentismo a lasciare il mondo del lavoro e a chiudersi in quello di una “mistica femminile” nella quale rivivono, aggiornati e ammodernati, quegli antichi e mitici “valori femminili” che avevano mistificato e coperto la servitù casalinga della donna, presentandola come la connaturata e positiva prerogativa dell’ “angelo del focolare”.

Chiara è la ragione di ciò: non è forse il lavoro, nella società opulenta, economicamente inutile? E non sono ovviamente le donne le prime a essere sollecitate e praticamente costrette ad abbandonare quel mondo della produzione nel quale esse sono ancora, in definitiva, delle parvenues? È l’esperienza di questi anni, ormai, a dimostrarlo e a confermarlo in modo inoppugnabile.

3. Le dimensioni sovrastrutturali”

Le donne, i contadini, i popoli dell’area del sottosviluppo: ecco alcune corpose realtà sociali che l’opulenza abbandona alla crisi o al ristagno, alla disperazione o alla morte. E non sarebbe difficile dimostrare che altre realtà e dimensioni e istituti della vita sociale nei nostri tempi già stanno vivendo anch’esse (o incominciano a vivere) il momento di una loro crisi altrettanto grave e altrettanto carica di tensioni potenziali, o già in atto.

Già abbiamo accennato alla crisi e alla ribellione del mondo studentesco, in cui certamente si esprime la tipica contraddizione dell’opulenza: quella di un consumo (il consumo della scuola, dell’istruzione, della cultura), che è ormai diventato di massa, ma viene ancora organizzato, amministrato e gestito nelle forme omogenee all’individualismo aristocratico, ed è dispensato da un personale tenacemente arroccato nella difesa di un privilegio inconcepibile in una società ormai dispiegatamente entrata sotto il segno della democrazia.

E vogliamo accennare ancora a un momento che consideriamo particolarmente significativo ed emblematico della vita ideale: quello della vita religiosa. Per quanti non si rinchiudono entro una concezione teologica, che nel rapporto esclusivo e diretto tra ogni singolo uomo e la divinità esaurisce tutta la vita religiosa, quest’ultima deve naturalmente svolgersi nell’ambito non semplicemente di una riunione o di un’assemblea di individui, ma di una vera “società di fedeli”. Per la religione cattolica, in particolare, è massima la centralità e l’indispensabilità della piena dimensione comunitaria non solo nel momento, più evidentemente pubblico, del culto, ma anche - e in modo decisivo - nei momenti più intimi e profondi della vita religiosa: quelli della preghiera e della partecipazione sacramentale alla divinità.

Tutto ciò, crediamo, è sufficientemente noto, e ha cominciato d’altra parte a esser significativamente rivissuto - almeno nel cattolicesimo - a partire dagli anni del pontificato di Giovanni XXIII. Quello che però qui ci interessa di sottolineare è che un mondo integralmente dominato dall’individualismo - qual è quello determinato dallo sviluppo opulento - nega la stessa possibilità della vita religiosa; esso infatti non solo ostacola e frena l’esplicarsi di quella dimensione comunitaria che è indispensabile al pieno svolgimento della vita religiosa, ma semplicemente lo rende impossibile: dissolve quel tanto di comune, di corale, di ecclesiale, che ha potuto storicamente manifestarsi e sopravvivere; atrofizza e isterilisce infine quel che non può dissolvere.

Se dal piano dei momenti della vita ideale passiamo a quello degli istituti nei quali tali momenti si incarnano e si esprimono, non è forse evidente che le crisi “strutturali” cui lo sviluppo opulento dà luogo investono direttamente l’esistenza di questi istituti medesimi? È il caso, appunto, della Chiesa cattolica, che è posta in crisi dall’impietosa e drammatica liquidazione del mondo contadino, come dall’azione aberrante e deformatrice esercitata dall’opulentismo sulla famiglia, come infine - e soprattutto - da quella lacerazione dell’umanità in due tronconi, il cui perpetuarsi e drammatico aggravarsi non possono non suonare come una condanna per ogni realtà, per ogni istituto, che necessiti di un respiro pienamente universale.

4. Una contraddizione fondamentale del sistema opulento.

Si potrebbe osservare che tutte le contraddizioni che abbiamo finora elencate sono, per così dire, esterne all’opulenza. Esse vengono infatti patite da chi è territorialmente escluso dallo sviluppo opulento (come i popoli dell’area del sottosviluppo), o è economicamente marginale rispetto a tale sviluppo, e quindi ugualmente escluso da esso (come i contadini e le donne); oppure investono categorie che sono, almeno temporaneamente, non inserite nei ranghi del sistema (come gli studenti), e i cui componenti sono comunque suscettibili di abbandonare la loro posizione di critica e di ribellione man mano che, con il passar degli anni, vengano singolarmente a integrarsi nell’opulenza.

Nessuna delle contraddizioni anzidette, insomma, colpirebbe il sistema al suo cuore e nel suo centro, poiché nessuna delle forze sociali e delle dimensioni da esse investite è realmente indispensabile al proseguire dei meccanismi dell’opulenza. Di conseguenza, sebbene l’esistenza delle une e delle altre riveli indubbiamente la parzialità dello sviluppo opulento e ponga in luce il suo limite disumano, non potrebbe nascerne, però, una linea sufficiente di trascendimento di tale sviluppo ne una forza capace di affermare una linea siffatta.

Una simile obiezione coglie senz’altro un punto importante ed esatto. E in effetti, se certamente le contraddizioni, che abbiamo brevemente esaminate, dimostrano che c’è chi concretamente paga lo sviluppo opulento al prezzo della propria morte o della propria vanificazione, e se quindi esse rivelano l’esistenza di una serie di forze vitalmente interessate alla fuoriuscita dall’opulentismo, tali forze non sono tuttavia di per sé sufficienti a dar luogo a un positivo processo di liberazione della società dai limiti deformanti nei quali essa oggi minaccia di congelarsi. Ci sembra, però, che all’interno dello sviluppo opulento si annidi un’ulteriore e fondamentale contraddizione la quale, poiché interessa una classe che è essenziale al sistema, è senz’altro decisiva al fine del realizzarsi di quel processo di liberazione: è la contraddizione implicita nella presente condizione operaia.

5. La classe operaia

È indubbio che non solo oggi, non solo agli inizi del processo opulento, ma sempre, non può non essere soprattutto ed essenzialmente la classe operaia a pagare per l’affermarsi e lo svilupparsi dell’opulentismo. Essa viene conquistando, è vero, un progressivo ampliamento del proprio reddito, ma solo e sempre al prezzo di condizioni di lavoro e di vita assolutamente imparagonabili con quelle delle categorie e dei ceti sostanzialmente improduttivi (e comunque largamente parassitari) che costituiscono i veri usufruttuari del benessere e dell’opulenza. D’altra parte, sebbene i proletari vengano via via ad acquistare un maggior benessere, essi lo pagano con la perdita della loro stessa verità di classe, della loro funzione storica: di quelle ragioni e di quelle prospettive, insomma, che riscattano il proletariato dalla sua subalternità originaria e lo elevano, nell’interesse dell’umanità, a nuova forza sociale dirigente. Non ci sembra, questo, un punto sul quale sia necessario insistere e soffermarsi a lungo. Abbiamo infatti già sottolineato che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, la contraddizione cruciale tra i popoli ricchi e quelli poveri non può non permanere e accentuarsi, non può non trasformarsi in una lacerazione sempre più profonda e irreversibile. E non è forse evidente che in questa spaccatura mortale del mondo e dell’intera umanità, il proletariato viene fatalmente ad alienarsi nella sua necessità rivoluzionaria? Ove insomma le cose dovessero procedere secondo i meccanismi propri dei sistemi in atto, la classe proletaria finirebbe per perdere anch’essa (come la Chiesa cattolica) ogni possibilità di respiro universale; il suo stesso momento politico verrebbe a dissolversi, ad annullarsi, a scomparire senza residui.

Non solo, ma lo stesso interesse di classe del proletariato non postula forse, quale proprio obiettivo di fondo, il superamento della sua condizione di forza-lavoro, della riduzione di questa a capitale? E non è forse basato il sistema dell’opulenza appunto sul permanere di una simile riduzione, in una prospettiva indefinita e insuperabile?

Anche il proletariato, dunque, paga in modo insopportabile lo sviluppo opulento; anche il proletario è vitalmente interessato, di conseguenza, al superamento di tale sviluppo. Ma il proletariato non soltanto deve opporsi all’opulentismo: esso può anche farlo. La classe proletaria, infatti, è quella che ha storicamente battuto il suo avversario di classe: la borghesia. Ma - come abbiamo già osservato quando abbiamo esaminato il modo in cui si è giunti, nella storia, al manifestarsi dell’opulenza - se il proletariato, la classe dei detentori della forza-lavoro, ha mutato dall’interno i fondamentali e principali meccanismi economici del capitalismo, tuttavia ha lasciato sopravvivere i suoi fini e i suoi modi, consentendogli cosi di sopravvivere alla crisi della classe borghese come classe egemonica a livello mondiale. Il sopravvivere dell’economia capitalistica insomma, l’elusione della contraddizione catastrofica che era implicita nella sua forma borghese, sono stati consentiti soltanto dall’incremento della capacità di consumo dei produttori e questo, a sua volta, ha trovato unicamente nella tensione rivendicativa (e nella parallela lotta politica) del proletariato la propria causa efficiente.

Certamente e necessariamente ambigua è quindi la posizione del proletariato nella società opulenta. Questa è, in qualche modo, una sua creatura, pur essendo letale per i suoi destini. Depurando il capitalismo della sua contraddizione fondamentale, la classe operaia ha consentito che rimanesse in vita l’unico sistema economico, tra quelli oggi ipotizzabili e ipotizzati, capace di garantire lo svolgersi del processo produttivo a livelli d’efficienza sufficienti ad appagare il bisogno di beni di sussistenza per tutti; e però, poiché l’economia capitalistica è stata lasciata alla sua forma opulenta, poiché insomma, una volta battuta l’egemonia borghese, nessuna l’ha sostituita e il sistema si è venuto sviluppando secondo le sole reggi della propria spontaneità, ecco che le capacità produttive del capitalismo sono restate congelate all’interno di determinate aree, si sono sviluppate intensivamente (e in modo di necessità distorto), non hanno dato luogo a una generale uscita dell’umanità dalla povertà e dalla fame, ed ecco infine che si sono venute ad aggravare proprio quelle contraddizioni - di cui abbiamo più sopra discorso - che minacciano e compromettono la vocazione rinnovatrice e universale del proletariato.

Se cosi stanno le cose, ci sembra abbastanza evidente che è proprio il proletariato che ha tutte le carte per gestire un processo di fuoriuscita dall’opulentismo: un processo che non contesti (perche, allo stato degli atti, non è contestabile) la forma di produzione basata sulla riduzione del lavoro a capitale, ma ponga all’economia capitalistica degli obiettivi, delle regole, differenti - e anzi opposti - a quelli spontaneamente impressi dallo sviluppo opulento.

Il discorso, evidentemente, diviene qui propriamente politico. E in effetti, perché il proletariato possa gestire il sistema capitalistico in modo non subalterno a1l’opulentismo, è necessario in primo luogo che esso non si esaurisca in una azione meramente rivendicativa, redistributiva - consumistica, dunque -, in essa identificando e risolvendo quasi interamente l’azione politica vera e propria. Finche sarà così, evidentemente, il processo opulento potrà continuare indisturbato il proprio cammino, e l’oggettivo potenziale di rinnovamento costituito dalle forze sociali escluse dall’opulentismo - o da esso mortificate e uccise - resterà sterile e subalterno. Resterà, appunto, un mero potenziale, non diverrà un reale blocco di forze: la base sociale organica per la gestione del potere.

È necessario, quindi, che il proletariato si affermi compiutamente - nella sua dimensione di partito - sul terreno del potere, e che su tale terreno affronti e risolva il problema di una gestione dell’economia radicalmente diversa da quella peculiare all’opulentismo. Una simile gestione non può proporsi - già lo abbiamo accennato - di superare illico et immediate la forma capitalistica di produzione; e ciò non solo per la ragione, di per sé sufficiente, che a tale forma non è stato possibile opporre - sul piano della teoria come su quello della prassi economica - un’alternativa che non sia l’anarchia o la reazione, ma anche perché il modo capitalistico di produzione non ha ancora esaurito sufficientemente la sua funzione sociale di fondo: quella cioè di garantire la massima esplicazione del processo produttivo, e di portare così l’umanità intiera fuori dal bisogno dei beni della sussistenza.

Utilizzare sotto segno proletario la forma capitalistica di produzione, sviluppare l’economia del capitale fuori dall’esclusivismo nazionale e di classe della borghesia e al di là della stagnazione mortificatrice dell’opulentismo, significa dunque, per la classe operaia, “riconquistare stabilmente la sua alleanza fondamentale”, ricollegarsi “agli esclusi delle aree depresse (a coloro che sono oggi solo virtualmente i futuri proletari) in un processo di allargamento continuo su scala mondiale del suo nuovo potere”; ma significa altresì manifestare concretamente la propria piena libertà d’azione dal sistema dell’opulenza, affermare positivamente la propria egemonia politica e aprire perciò la prospettiva di una liberazione del lavoro dalla sua condizione di lavoro alienato, di lavoro ridotto a capitale.

Come è possibile però gestire, a livello dei tempi in cui viviamo, l’economia capitalistica in una prospettiva omogenea agli interessi di fondo della classe proletaria? Non possiamo evidentemente affrontare in modo esauriente questa decisiva questione, e rinviamo perciò il lettore alle pagine ora citate. Ci interessa comunque di sottolineare che il problema dell’organizzazione della città e, più in generale, quello di un “dispiegamento organico, e in prospettiva generalizzata, della forma sociale del consumo”, è una componente decisiva di una siffatta gestione, a egemonia proletaria, del capitalismo.

E in effetti, non solo una simile figura del consumo è antitetica - come abbiamo dimostrato - a quella propria al sistema opulento, e consente perciò al partito proletario di affermare la pienezza della propria autonomia da tale sistema. Non solo, poi, rivendicare consumi organizzati in forma pienamente sociale garantisce al proletariato di migliorare le proprie condizioni d’esistenza (e dunque di non sacrificare neppure i propri immediati interessi di classe). Ma, soprattutto, un’organizzazione sociale del consumo poiché riconduce quest’ultimo sotto una norma di efficienza e di risparmio, consente perciò di liberare risorse: consente dunque al proletariato di estendere - sotto la propria egemonia - il processo accumulativo, di ricondurre nell’ambito dell’economia e della civiltà moderna i popoli esclusi dal circuito della vita civile, sottraendoli così al loro destino di miseria e di fame; consente, infine, di indicare ai popoli del sottosviluppo e alle zone di arretratezza presenti nello stesso mondo dell’opulenza una concreta prospettiva di sviluppo civile, e di fondare così le nuove ragioni di un’alleanza storica, a livello mondiale, della classe proletaria.

6. Una domanda conclusiva

Condurre la società fuori dallo sviluppo opulento, quindi, è fin d’ora oggettivamente possibile, perché esistono le forze sociali interessate a farlo. E allora non è utopistica e astratta, non è velleitariamente eversiva una linea urbanistica che si proponga di sottrarre la città al destino cui l’opulentismo la condanna. Se gli urbanisti giungono a formulare e a concretare una simile linea, essi possono non essere soli: possono ritrovare, anzi, un legame profondo e organico con le forze decisive della società d’oggi, per camminare e lottare nella medesima direzione. Non solo, ma ci sembra - e lo abbiamo già in parte dimostrato - che una linea urbanistica di rinnovamento della città, fondata sulla trasformazione del consumo individualistico di massa in consumo comune, oltre a essere evidentemente omogenea a una linea di generale trascendimento dell’opulentismo, ne può essere addirittura una componente essenziale. Per vederlo meglio, gioverà comunque riprendere l’analisi della città dell’opulenza e svilupparla, esaminando brevemente alcuni più vistosi e rilevanti fenomeni dell’attuale crisi urbana, entrati oramai nell’esperienza di tutti (o, almeno, di quanti vivono nella parte del mondo già condizionata, in misura più o meno rilevante, dal processo dell’opulenza).

Quando abbiamo affrontato il tema della città di oggi abbiamo affermato che, ove si rimanga entro il quadro del modello opulento, la città si avvia verso la sua definitiva crisi lungo due direzioni: quella della congestione crescente e irrefrenabile, e quella della dispersione delle residenze sul territorio.

Ci sembra che due aspetti, due fenomeni, o se si vuole due momenti della crisi dell’odierna città, particolarmente signifìcativi ed emblematici, siano costituiti dalla questione del traffico e dalla tendenza a quella particolare forma d’insediamento che viene definito suburbio. Tali aspetti dell’attua1e problema urbanistico rappresentano infatti, con efficacia quasi simbolica, quelle due direzioni di cui or ora si diceva (e difatti il traffico è uno dei parametri più rilevanti della congestione urbana, e il suburbio è la forma dominante della dispersione delle residenze), ed entrambi rivelano e confermano, con sufficiente chiarezza, che la crisi già in atto nella città è direttamente riconducibile alla caratteristica di fondo del consumo nella società opulenta: quella cioè di esser divenuto consumo di massa, pur essendo rimasto nella millenaria forma individualistica. Non è soltanto per questi motivi però, non è solo per trovar conferma alle nostre tesi, che vogliamo ora esaminare brevemente il fenomeno del traffico e quello del suburbio, ma anche e soprattutto perché un’analisi più concreta e puntuale della città d’oggi (colta in alcuni suoi decisivi aspetti) ci potrà consentir di vedere chi paghi socialmente il prezzo della crisi della città, e quali siano la portata e il significato di quella crisi sul terreno economico; avremo così accumulato sufficiente materiale per dimostrare, in definitiva, la nostra tesi ultima e conclusiva: che cioè l’azione per il rinnovamento della città può essere una componente essenziale di una più generale linea anti-opulentistica.

7. Il problema del traffico

Che il traffico sia diventato un problema macroscopico delle nostre città non è cosa che occorra dimostrare. Stanno n a testimoniarlo, oltretutto, una grande quantità di rapporti, relazioni, documenti congressuali, articoli ,giornalistici; fiumi di interviste, dichiarazioni, discorsi; centinaia di iniziative tecniche e amministrative (sia pure generalmente parziali e settoriali). E non ha forse provocato, infine, il problema del traffico, riflessi spesso vistosi e clamorosi sul terreno delle lotte sociali e sindacali ? Quanti hanno messo anche soltanto un piede nelle città dell’”area sviluppata”, conoscono di persona quel problema: tutti sanno oramai che, nel momento stesso in cui il rapido sviluppo della tecnologia viene elaborando gli strumenti tecnici, sempre più raffinati ed efficienti, che consentirebbero di soddisfare l’esigenza della mobilità, quest’ultima viene invece appagata in modo sempre più precario, affannoso, mortificante, inumano, compromettendo in misura via via più diretta la stessa possibilità di circolare nelle città, di viverle, di conservarle perfino.

Le cause di una situazione siffatta sono indubbiamente molteplici, ma due soprattutto sono decisive e fondamentali: l’accrescimento tumultuoso, irrazionale, disorganico delle città maggiori, con il parallelo e contemporaneo spopolamento delle campagne e dei centri minori; la scelta della motorizzazione individuale (l’automobile), quale mezzo di gran lunga preminente per risolvere il problema della mobilità. Ora a noi sembra assai facile dimostrare, che non solo - com’è intuitivo - la seconda, ma anche la prima di queste cause ha la sua radice in quella caratteristica di fondo del consumo opulento di cui si diceva. L’accrescimento delle grandi città a spese del resto dell’insediamento ha infatti certamente la sua ragione nel fatto che all’aumentata necessità di rapporti e relazioni tra gli uomini e tra le varie sedi nelle quali si svolgono la vita e l’attività (le residenze, i luoghi di lavoro, le attrezzature collettive ), alla rottura, insomma, di quella situazione tradizionale che vedeva l’insediamento umano come la giustapposizione di mondi, quali più grandi e quali più piccoli, ciascuno chiuso in se stesso e in sostanza autosufficiente (quale che fosse il livello di vita in ognuno consentito ), non ha corrisposto una effettiva .presa di coscienza delle nuove esigenze e delle mutate condizioni, e perciò neppure una politica tendente a un’equilibrata dislocazione degli insediamenti sul territorio. In altri termini, quando ogni uomo ha cominciato a divenir consapevole della propria necessità (e del proprio diritto) di usufruire di determinate condizioni di vita e possibilità di lavoro, ciò non ha dato luogo a un processo di complessiva riorganizzazione degli insediamenti sul territorio, nell’ambito del quale si giungesse a infrangere - come tecnicamente è possibile - la cesura fra città e campagna, fra insediamenti maggiori, e perciò dotati di un sufficiente livello di attrezzature, e insediamenti minori.

L’esigenza di vivere in ambienti caratterizzati da condizioni “urbane”, insomma, anche quando è divenuta di massa, ha trovato una soluzione solo individualisticamente; ciascuno ha dovuto cercare singolarmente e spontaneisticamente la soluzione al suo proprio problema ( che era invece oramai un problema di tutti}, e l’ha fatto nell’unico modo possibile nella situazione data: affluendo cioè alla città, inurbandosi, accorrendo insomma là dove unicamente esistevano condizioni di vita e possibilità di lavoro vicine a quelle che oramai erano da tutti sentite come indispensabili.

Non solo la scelta della motorizzazione individuale, quale risposta dominante all’esigenza di massa della mobilità, ma anche l’abnorme e tempestivo accrescimento dei centri maggiori, ha dunque la sua radice nel fatto che un’esigenza di massa ha trovato un appagamento unicamente entro la logica di un consumo individualistico. Ed è allora l’intiero odierno problema del traffico che deve venir ricondotto alla caratteristica di base del consumo opulento.

8. Il suburbio”, insediamento tipico dell’opulenza

Minacciata dal congestionamento e dalla paralisi, resa inordinabile dal caos che la caratterizza (e che ha nel traffico una delle sue più evidenti manifestazioni, ma non certo l’unica), ecco che la città comincia ad apparire sempre di più una realtà nella quale è impossibile vivere. E non a caso, si viene via via affermando una tendenza, particolarmente omogenea all’opulenza, nell’ambito della quale, mentre i centri minori si svuotano e s’isteriliscono sempre di più, e mentre le grandi città ospitano soltanto le cosiddette “funzioni terziarie superiori” o “quaternarie” e i mostruosi “ghetti” nei quali vengono accatastati quanti ancora non sono assorbibili dall’opulenza, si sviluppa invece, in misura crescente e man mano più massiccia, un processo di fuga di massa dalla città. È, quest’ultimo, un processo che interessa le moltitudini festive dei cittadini delle metropoli dell’opulenza, i quali cercano periodicamente un’evasione illusoria e spesso intimamente disperata nell’esodo del week-end, ma è un processo che comincia già a dar luogo a insediamenti stabili e permanenti, a formare un nuovo modo di abitare e di vivere: si tratta, appunto, di quella mostruosità urbanistica che può divenir tipica dei nostri tempi: il suburbio.

Che cosa è il “suburbio”? È un insediamento caratterizzato da due elementi essenziali, tra loro strettamente collegati nel senso che il primo è condizione del secondo: la rarefazione estrema dei tessuti edilizi, ossia la dispersione delle residenze sul territorio; la concentrazione dei più essenziali servizi (soprattutto quelli commerciali) e la loro conseguente localizzazione in punti assai distanti gli uni dagli altri.

Il “suburbio” si basa, più precisamente, su una cellula generatrice che è l’alloggio individuale, costruito su di un lotto individuale anch’esso, e dotato - oltre che del suo brandello privato di verde - di tutta una serie di spazi e di ambienti, i quali servono allo svolgimento (nell’ambito della famiglia e, appunto, dell’alloggio) di funzioni e di compiti che non solo possono venir svolti e organizzati in forme sociali, ma che in parte già venivano concretamente svolti in tali forme.

La bassa densità edilizia risultante da una simile soluzione dell’alloggio comporta evidentemente una notevolissima rete stradale, e quindi rende praticamente impossibile una organizzazione collettiva del trasporto: l’automobile è perciò la regina del suburbio, e ogni famiglia deve possederne più d’una. E poiché l’estrema rarefazione impone che i servizi ineliminabili siano localizzati a grandi distanze reciproche (altrimenti non disporrebbero di una sufficiente “area di mercato”), ecco che viene ancor più scoraggiata ogni volontà di uscire frequentemente dall’alloggio per provvedersi di beni o servizi di uso quotidiano, ed ecco quindi che viene ribadita e ulteriormente esaltata la necessità di attrezzare la casa “di tutti quegli strumenti che rendono possibile l’autonomo e individualistico soddisfacimento dei bisogni altrimenti soddisfacibili collettivamente: la televisione, anzitutto, e poi l’indefinita proliferazione degli elettrodomestici”.

È evidente, perciò, che questo tipo d’insediamento comporta una notevolissima espansione dei consumi privati: non solo per il motivo generale che è l’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, ma anche per il motivo specifico che una residenza organizzata in un modo siffatto pretende un aumento dei consumi privati nella misura precisa in cui postula una rinuncia sempre più marcata a una organizzazione sociale dei servizi. Ed è appunto per questo, in definitiva, che gli unici elementi comuni i quali riescono a svilupparsi in un simile inferno urbanistico (e umano) sono quelli ordinati appunto all’approvvigionamento, il meno frequente possibile, dei beni di consumo privati: i giganteschi shopping centers, le efficienti stazioni di servizio automobilistiche, e, di conseguenza, le faraoniche costruzioni destinate ai parcheggi. Sono questi, insomma, i nuovi templi, i nuovi arenghi, le nuove piazze, le nuove cattedrali dell’insediamento proprio all’individualismo di massa.

9. Chi paga il prezzo della città opulenta?

Il rapido esame, che abbiamo compiuto, di due rilevanti aspetti della crisi dell’odierna città, non è certamente - né voleva essere - un’esauriente rassegna dei fenomeni nei quali si manifesta il disastro urbanistico nel quale viviamo; più di una volta però (lo confessiamo francamente al lettore) la penna avrebbe voluto correre per illustrare e denunciare altri aspetti, altri fenomeni, altre manifestazioni - che ogni giorno ci colpiscono - del decadimento e della dissoluzione dell’assetto delle nostre città e del nostro territorio. Se abbiamo resistito, se non ci siamo soffermati nel ricordare e nell’esaminare la dissipazione del territorio e del paesaggio divorati dall’anarchia dell’appropriazione individualistica, o la distruzione dei centri storici stravolti, oltre che dalla congestione, dal privilegio rozzo dei più ricchi e dalla miseria dei più poveri, o l’assurda bruttura dei panorami urbani determinati da un mostruoso agglomerarsi di miriadi di episodi singolari tra loro sconnessi e dissonanti, o la dispersione della vita negli alveari metropolitani e negli ischeletriti insediamenti della campagna e della provincia, ciò non è dipeso dal fatto che questi aspetti non ci sembrino tutti rilevanti. È che, così facendo, non avremmo aggiunto al nostro quadro null’altro di sostanziale: ci sembra, infatti, che le conclusioni, alle quali stiamo cercando di pervenire, non potrebbero trovare nell’esame di questi ulteriori aspetti un contributo diverso da quello di una conferma della loro validità. Avremmo corso il rischio, invece, di lasciarci travolgere dalla facile passionalità della mera denuncia e dell’invettiva, mentre ciò che soprattutto ci preme e c’interessa è di contribuire a far passare la cultura urbanistica dalla denuncia alla proposta consapevole, dalla protesta al lavoro, all’azione coerente e fiduciosa, critica - perché non può non esserlo - ma aperta alla speranza: pronta, perciò, a riconoscere le vie attraverso le quali passa il possibile, e a percorrerle.

Per individuare le “vie del possibile”, ci sembra che si debba in primo luogo comprendere che il problema della città non è cosa che interessa soltanto gli urbanisti: se così fosse, davvero disperata sarebbe la loro azione, condannata al velleitarismo ribellistico e protestatario, o all’astrazione sterile dell’utopia.

L’esserci brevemente soffermati sul problema del traffico e sulla tipologia del “suburbio”, ci consente intanto di vedere a questo punto, con sufficiente chiarezza, che la condizione degli uomini nella città d’oggi è realmente tale da non poter mancar di generare una carica d’insoddisfazione, di disagio, di protesta, quindi, e di ribellione, in tutti i suoi abitatori. La concreta situazione della città dei nostri giorni dimostra insomma che il prezzo dello sviluppo opulento è pagato, direttamente e quotidianamente, dagli stessi uomini che già vivono nel processo dell’opulenza, ne sono i protagonisti e gli usufruttuari.

Essi pagano un simile prezzo in quanto uomini, individualmente e singolarmente, ma lo pagano anche in quanto umanità associata, nei corpi e negli istituti e negli organismi in cui si esprime e si articola la dimensione comunitaria della società; ciò non solo per il motivo generale che la città dell’opulenza, poiché è dominata dall’individualismo, è incomponibile con una vita pienamente sociale, ma anche per una serie di motivi specifici, che nel primo hanno evidentemente la loro causa originaria, e che possono essere colti correttamente solo esaminando ciascuna delle distinte realtà sociali che nella città vivono. Su una di queste - che già abbiamo poco fa trattato - vogliamo ora brevemente ritornare quasi a titolo d’esempio, e soprattutto perché la consideriamo particolarmente legata alla realtà urbanistica: ci riferiamo alle donne.

10. Le donne e il suburbio

Nell’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, gli elementi decisivi -come abbiamo visto -sono l’esaltazione dell’individualismo della residenza e l’esaltazione del consumo, anch’esso individualisticamente concepito, organizzato e fruito. Più precisamente, sia la residenza che il consumo trovano nella famiglia (materialisticamente intesa e tradizionalisticamente fissata) l’istituto, il luogo, il momento, al quale si ordinano e in funzione del quale esclusivamente si organizzano.

Ma il consumo dei nostri tempi, e la residenza dei nostri tempi, non sono quelli dei tempi andati. Non sono più un consumo e una residenza di cui era difficilmente immaginabile -e invero storicamente non è stata immaginata -la forma collettiva, poiché appunto erano ridotti all’osso, contenuti nel minimo indispensabile per la sussistenza, ed erano infatti regolati dalla dura norma e dall’arte difficile e complessa del risparmio. Anzi, viviamo in una società nella quale (poiché vengono metodicamente, automaticamente scartate tutte le aperture verso forme collettive di gestione e di insediamento) la tendenza è quella di un esasperato individualismo residenziale e di una progressiva espansione dei consumi tradizionali, sorretta da una continua complicazione delle esigenze materiali.

Il consumo, perciò, si complica e si moltiplica, pur rimanendo un consumo individualistico, domesticamente gestito entro il chiuso alloggio familiare: basti pensare alla «indefinita proliferazione degli elettrodomestici», alle elaboratissime ricette culinarie che tornano in auge nei «paesi evoluti», alle frenesie consumistiche in cui paganamente si risolvono ( con una cospicua erogazione di forza-lavoro domestica) le feste tradizionali e quelle nuove, alle stesse rinverdite teorie pseudo-psicanalitiche sull’indispensabilità della fisica presenza materna per i bambini fino a due o tre o quattro anni. Chi dunque si occupa di un simile consumo e chi presiede a un simile modo di abitare non regola nulla, ma si abbandona al flusso delle cose; non risparmia, spende; non garantisce un ordine, galleggia su un’informe anarchia.

Di questo modo abnorme di consumare e di vivere, il suburbio è evidentemente, al tempo stesso, la condizione e il risultato. Ma nel concreto, chi è che deve occuparsi di tutto ciò? Chi è che deve gestire un simile consumo e occuparsi di una residenza siffatta? Né la logica né la storia hanno esitazioni nel rispondere: è ovviamente la donna, è l’antico «angelo del focolare», che deve farlo. È essa, infatti, che è sempre stata aggiogata alla famiglia ed alla casa, rimanendovi asservita anche quando finalmente è entrata nella produzione, nel mercato del lavoro.

Ma v’è di più; come già abbiamo visto, il processo di emancipazione della donna e il movimento emancipativo organizzato spingevano e spingono tuttora la società, oggettivamente e soggettivamente, a trasformarsi, a svilupparsi, e insomma ad adeguare faticosamente se stessa alla nuova situazione della donna che vuole affermare la propria umanità nella figura del libero produttore. Solo che, in un primo momento, la società non ha cambiato nulla di sostanziale su un così decisivo e primario terreno come è quello del consumo e dell’insediamento, e ha scelto quindi la via più tranquilla ed immediata: quella cioè di accogliere solo l’elemento tecnologico del progresso, e tenere in piedi - anche quando son divenute mortifere, anche quando occorre imbalsamarle e corromperle - tutte le vecchie abitudini, tutte le vecchie tradizioni e servitù, che non sono direttamente di ostacolo al processo tecnologico stesso.

In un secondo momento invece, con il meccanismo dell’opulenza, ha prevalso, sul piano stesso della rilevanza economica, la figura del consumatore rispetto a quella del lavoratore, e per ciò si è avuto sempre meno bisogno, sotto ogni aspetto, della forza-lavoro femminile, per cui se ne è favorito l’espulsione dal mondo del lavoro per riportarla esclusivamente alla sue antiche funzioni, adesso esaltate, ma anche alienate e distorte, dalla trionfale avanzata del consumismo di massa.

L’antico «angelo del focolare» si vien trasformando sotto i nostri occhi (senza perdere nulla del suo errore) nella moderna, «razionale», «efficiente» funzionaria del consumo. La donna abbandona sì la fatica oggettivamente rivoluzionaria del doppio lavoro, ma per divenire la nevrotica addetta a quella vera e propria mostruosità economica, sociale e umana che è la cosiddetta «azienda familiare»: l’azienda in cui si amministra, si organizza, si gestisce, si consuma ormai soltanto il superfluo, quello che è inutile in sé, e quello che è inutile consumare in quel modo.

La tendenza urbanistica del suburbio e quella del «ritorno a casa» della donna sono dunque davvero due fenomeni strettamente connessi, due facce di un’unica realtà: e sono infatti due modi, due momenti, due aspetti dell’identica operazione, messa in atto dallo sviluppo opulento, per aggiogare la donna a una moderna schiavitù.

11. Una prospettiva di rinnovamento della città.

Quale città è necessaria per consentire un’effettiva liberazione della donna?

È una città, evidentemente, in cui il rapporto tra alloggio e attrezzature collettive non dev’essere riformisticamente corretto, ma deve essere completamente rovesciato in modo rivoluzionario. È una città, concretamente, in cui l’alloggio non deve più essere un’isola, ma deve diventare parte di un complesso assetto della residenza in cui ogni singolo servizio, ogni consumo, vengano organizzati e gestiti in modo comune, sociale, collettivo. Se, per fare degli esempi, si estende il ruolo della scuola; se per ogni gruppo di alloggi si prevede uno spazio sorvegliato per i giochi dei bambini; se si sostituiscono le lavatrici individuali con impianti di caseggiato; se una fitta rete di ristoranti economici permette di evitare la corvée della spesa e della cucina e del rigoverno delle stoviglie; se la manutenzione e la pulizia degli alloggi vengono svolte, per tutti, da squadre specializzate; se tutte queste cose vengono fatte, allora effettivamente ci si avvia a organizzare la residenza in modo che consenta la liberazione della donna.

Ci si avvia, abbiamo detto. E infatti gli esempi ora elencati sono serviti solo a far comprendere meglio in che direzione sollecita la spinta di una determinata forza sociale; non pretendono certo di dare, sul piano urbanistico, un’immagine sufficiente della città quale dovrebbe essere e quale dovrà essere. Sono esempi che possono servire a dare una indicazione sul punto di partenza e sulla direttrice di marcia, non sul punto di arrivo.

È chiaro, comunque, che muovendosi da quel punto di partenza e lungo quella direttrice si comincia a costruire - sulla base di esigenze e di spinte sociali che già oggi si esprimono e ci sollecitano - una città che è dominata dal momento sociale, e che quindi non è più un aggregato di isole individualistiche, ma una struttura di elementi collettivi, comuni; una città in cui le case, gli alloggi, sono soltanto i prolungamenti delle attrezzature collettive, e che perciò, in definitiva, è proprio una città rivoluzionata: nel senso che è l’esatta antitesi, il puntuale rovesciamento di quella attuale, anche se realisticamente è dalle possibilità, dai germi, dagli inizi già presenti nella città di oggi, che si comincia a costruirla.

E non è proprio una simile città, d’altra parte, quella che è omogenea alla intuizioni degli utopisti come alle indicazioni più positive e promettenti della moderna cultura urbanistica? Non è in una siffatta direzione che si può riprendere un fruttuoso collegamento con l’eredità storica della città, con le ragioni stesse della sua nascita, con l’esperienza dei momenti più fecondi della sua evoluzione? Veramente ambigua e complessa è la realtà dell’opulenza: convivono e si intrecciano al suo interno i meccanismi che sospingono alla dissoluzione dell’organismo urbano, e le tensioni e le forze che già indicano la strada per una rinascita della città, per il suo sviluppo.

12. Lo spreco della città.

Certo, nessuno, oggi, si rende conto di quanto costa una città organizzata individualisticamente, nessuno -o quasi - avverte e denuncia lo spreco della città. Ma perché? In primo luogo, nessuno è oggi costretto a rendersene conto: c’è ancora qualcuno che è mistificatamente sfruttato, c’è ancora qualcuno che sfacchina senza essere pagato, ci sono appunto le donne, le casalinghe, gli «angeli del focolare» che lavorano senza retribuzione. C’è ancora oggi, insomma, una spesa invisibile, una erogazione gratuita e dissimulata di forza-lavoro femminile, in cui sta proprio una delle cause che consentono la sopravvivenza di una città anarchica e antieconomica.

In secondo luogo, poi, nessuno se ne rende conto perché tutti sono oggi alienati, almeno nel senso che tutti sono condizionati dal sistema, dall’assetto dell’opulenza, in cui sono socialmente inseriti. In che cosa precisamente si manifesti un simile condizionamento, perché esso conduca a una siffatta alienazione e impedisca di prender coscienza del costo di una città individualistica, può esser ormai facilmente compreso.

Il sistema dello sviluppo opulento ha bisogno della spinta dell’individualismo consumistico proprio per i suoi interni equilibri, e trova anzi in quella spinta la condizione essenziale perché i suoi automatismi possano esplicarsi. Quel consumo superfluo che è caratteristico dell’individualismo di massa, e che intrinsecamente altro non è se non puro spreco, è insomma indispensabile per la sopravvivenza del sistema: per esso, quindi, non è uno spreco, ma diviene una precisa norma economica.

Ecco quindi perché e in qual senso oggi si è tutti alienati; ecco perché, nella misura in cui si è condizionati da questo sistema e si rimane idealmente entro di esso, è impossibile concepire una città organizzata in modo diverso; ed ecco infine perché, fino a quando il sistema in atto è questo determinato sistema entro il quale viviamo, realizzare una città conforme alle esigenze degli urbanisti è addirittura impossibile. Bisogna convenire che lottare oggi per una città diversa, per una città nella quale il consumo di massa si sviluppi nel consumo comune e possa perciò esser sottoposto a una norma economica, significa cogliere l’occasione dell’urbanistica per contestare e rovesciare - in una serie di punti concreti, su questioni che vitalmente interessano forze sociale decisive - lo sviluppo opulento, le sue leggi, le sue necessarie regole economiche.

Per farlo, non è certamente necessario un atto demiurgico degli urbanisti, un porsi dei «tecnici della città» come supremi ed esclusivi regolatori dell’assetto urbanistico; serve, anzi, esattamente l’opposto. Serve cioè che gli urbanisti, sfuggendo a quella tendenza all’esclusivismo che è destino di ogni disciplina che si separi dalle altre, intreccino la propria ricerca e la propria azione con quelle delle discipline, e delle forze che sono direttamente e peculiarmente ordinate all’intervento sul terreno del sistema sociale. E serve poi, d’altra parte, che le forze sociali decisive - e quindi, prima fra tutte, quella proletaria - comprendano il ruolo fondamentale che la questione urbanistica può oggi assumere per iniziare il processo di fuoriuscita dall’opulentismo: quel processo cioè che, attraverso l’eliminazione di ogni parassitismo (quale quello preborghese della rendita fondiaria), di ogni spreco economico, di ogni dissipazione di risorse, consenta di gestire politicamente il meccanismo capitalistico negli interessi dello sviluppo, a scala mondiale, di una nuova egemonia rivoluzionaria della classe proletaria nell’ambito di un nuovo «blocco storico» di alleanze.

13. Conclusione

Gli urbanisti si lamentano spesso dei fallimenti a cui vanno incontro. Essi, però, sogliono dimenticare altrettanto spesso che le idee camminano, si concretano, si traducono in leggi e poi in edifici e spazi e città, solo quando incontrano le forze capaci di comprenderle, di verificarle nei propri interessi immediati,e perciò di farle proprie e di battersi per esse. Abbiamo voluto dimostrare, in quest’ultimo capitolo, che questo incontro è possibile, oltre che necessario, e dobbiamo ormai considerare conclusa questa nostra ricerca.

Non nel senso, beninteso, che essa ci abbia condotto a un qualche traguardo sul quale si possa sostare nell’attesa che le cose proseguano il loro sviluppo; ma, almeno, nel senso che abbiamo potuto trarre, da una prima indagine a grandi linee , sulle origini storiche e sulle cause di principio che determinano l’attuale condizione della città, alcune direttrici di studio e d’azione. E se siamo stati condotti a dover riconoscere, nella città contemporanea, la minaccia d’una crisi distruttrice e mortale, abbiamo però potuto individuare il segno esplicito di una speranza di rinnovamento.

Certamente, le radici di quella crisi - lo abbiamo intravisto - sono profonde, complesse, antiche; esse affondano in una concezione dell’uomo, del lavoro, dell’economia, della società, che è antica come la storia e che pesa sul nostro futuro. Rimuoverle interamente, concretare quindi definitivamente quella speranza per la città, è dunque impresa alla quale gli urbanisti, da soli, non possono ovviamente accingersi. Essi però - è questo il senso del nostro lavoro - non più da solitari scienziati e quindi da «profeti disarmati», ma in operosa alleanza con una serie di forze della società civile, possono portare il loro contributo, sullo specifico terreno della loro disciplina, alla soluzione comune dei problemi del nostro tempo.

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