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II - LE FORME D’INSEDIAMENTO PECULIARI ALLE ECONOMIE PRECAPITALISTICHE
1 Aprile 2004
Urbanistica e società opulenta, Laterza, Bari, 1969
1. Una caratteristica dell’attività produttiva necessaria all’esistenza della città Per giungere a una definizione di città si può partire da una presa di contatto con quella che è la realtà più immediata della città in cui viviamo. La città si presenta allora come il luogo in cui l’attività produttiva si svolge senza dubbio obbedendo a una caratteristica determinata: quella, cioè, di non essere rapportata immediatamente, fisicamente, ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un consumatore determinato.

È possibile elevare .una simile osservazione sino al livello ed alla dignità di una tesi definitoria? È possibile, in altre parole, asserire che sempre e di necessità, quando l’attività produttiva si svolge comprendendo tra le sue caratteristiche anche quella suddetta, l’insediamento deve assumere una forma peculiare, definibile soltanto come città? Se vogliamo tentar di legittimare questo passaggio, invero decisivo, dalla mera constatazione alla tesi e alla definizione di principio, dobbiamo comprovare almeno tre distinte posizioni.

Dobbiamo dimostrare innanzitutto, per così dire negativamente, che quando l’attività produttiva non si svolge obbedendo a quella caratteristica di cui sopra si è detto (e si svolge dunque ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un consumatore determinato), l’insediamento umano, per concentrato che possa essere, non è assolutamente una città, né merita quindi di venir definito in tal modo. Dobbiamo poi dimostrare in secondo luogo - ed è questo evidentemente il punto centrale - che effettivamente, quando nell’attività produttiva è comunque presente quella caratteristica (la caratteristica cioè della scomparsa come fine del consumo individuale di un consumatore determinato), allora, e soltanto allora, l’insediamento umano assume i caratteri e le forme di una vera e propria città, e comporta quindi e pretende di essere definito come tale. Ma c’è una terza posizione che bisogna a ogni costo dimostrare o, per meglio dire, c’è da rispondere a una obiezione che nasce dall’esperienza medesima di questa nostra città disorganica e disperata, caotica e disumana, e in cui tuttavia, come proprio poco fa si è sottolineato, l’attività produttiva obbedisce senza dubbio alla caratteristica di non essere rapportata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un consumatore determinato. Bisogna cioè dimostrare che l’insufficienza, la vera e propria alienazione della città nella sua forma di città contemporanea, non dipende dal fatto che nell’attività produttiva è presente quella caratteristica di cui più volte si è detto, ma discende da altre ragioni, sicché, anzi, sviluppo della città nella sua pienezza e nella sua autonomia può aversi soltanto nel quadro di un’economia nella quale l’attività produttiva abbia e mantenga la caratteristica di svolgersi fuori dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo con il consumo individuale di un consumatore determinato.

Inizieremo dunque senz’altro la nostra argomentazione, studiandoci di mostrare come non si dia luogo a città quando l’attività produttiva è ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un qualche consumatore determinato. In corrispondenza a una simile caratteristica la storia ci ha fornito due soli esempi, due soli modelli economici: quello dell’autoconsumo e quello dell’economia signorile.

2. Il modello dell’autoconsumo e l’insediamento disperso

L’economia dell’autoconsumo può essere essenzialmente definita come quell’economia nella quale il produttore produce per il proprio consumo, e consuma per poter continuare nel tempo, e al medesimo livello, la propria attività di produttore. È quindi evidente che un simile modello risponde alla caratteristica prima postulata; nell’autoconsumo, infatti, il fine immediato, fisico, esclusivo dell’attività produttiva è costituito certamente dal consumo individuale di un consumatore determinato, che in questo caso coincide appunto con la persona medesima del produttore. Ma d’altra parte, poiché in una simile economia il fine del consumo è a sua volta costituito dal mantenimento delle condizioni di una ripresa, al medesimo livello, dell’attività produttiva del consumatore stesso, ecco che i bisogni, che è necessario soddisfare perché tale attività produttiva possa aver luogo, sono, e possono essere soltanto, i "bisogni della vita fisica, della sussistenza corporea dell’individuo e della sua famiglia (quelli cioè della reintegrazione e della ricostituzione dell’energia lavorativa); il lavoro, proprio per tutto ciò, non può non essere applicato, e viene a essere esclusivamente e unicamente applicato, all’appropriazione diretta e immediata delle risorse della natura, che in tanto vengono appropriate, elaborate e trasformate, in quanto devono essere, immediatamente e direttamente, consumate.

Una conseguenza discende allora palesemente da tutto questo. L’unica forma di vita associata, l’unico organismo sociale che venga già preteso e sostenuto dall’economia dell’autoconsumo, è quello costituito dalla famiglia in quanto istituto ordinato alla riproduzione della forza-lavoro: così originaria è per l’uomo, così intrinsecamente umana è la famiglia, che anche la forma primordiale dell’economia già la pretende e la sostiene. In ogni modo ciò che qui interessa di sottolineare è che nessun altro ordinamento, nessun altro schema sociale è necessario al funzionamento del modello dell’autoconsumo, come nessun altro, del resto, può venirne sorretto. Allora, sul :piano delle forme dell’insediamento umano, è chiaro altresì che il ciclo chiuso, localizzato, meramente reiterantesi dell’economia dell’autoconsumo ha, quale suo unico corrispettivo residenziale omogeneo, quello dell’insediamento individuale e disperso, il quale, poi, trova come suo invalicabile limite superiore quello che deriva dal mero accrescimento naturale della residenza unifamiliare: il villaggio, racchiuso e circoscritto nell’ambito degli elementari interessi di consumo e di produzione (e in definitiva di sussistenza) di una famiglia solo quantitativamente più estesa, di una gens.

L’autoconsumo, dunque, non postula, non può postulare la città, non può darle vita. E comincia allora ad acquistare un senso reale, una effettiva profondità un significato logicamente comprensibile, l’osservazione elementare e quasi ingenuamente empirica, per non dire lapalissiana, che la città è la non-campagna: poi che infatti un’economia di autoconsumo (quella appunto che, come si è detto, comporta e pretende solo un insediamento sparso e che esclude quindi, nel modo più radicale, la dimensione della città) non può non svolgersi se non a immediato contatto con la natura, con le risorse naturali, e dunque nelle campagne. Ma per procedere nell’argomentazione bisognerà ora mostrare come neppure l’altra forma di economia ordinata al consumo individuale di un consumatore determinato - l’economia signorile - possa condurre a una vera e propria città: come insomma, se ci è consentita un’espressione simbolica e quanto mai ellittica, la città sia anche il non-castello.

3. L’appropriazione signorile del sovrappiù.

L’economia signorile è caratterizzata dall’operazione dello sfruttamento, la quale consiste sostanzialmente nel fatto che il lavoro di una parte del genere umano (i servi)viene violentemente ordinato dalla libertà dal lavoro di un’altra parte del genere umano (i cui membri in quest’atto si costituiscono in signori). È chiaro allora che l’economia signorile può sorgere solo sulla base della formazione del sovrappiù. Essa può sorgere, in altri termini, solo quando il lavoro umano, per quel suo sviluppo che è preteso dalla stessa natura dell’uomo e che si è venuto esplicando nella storia, raggiunge un determinato livello di produttività: esattamente quel determinato livello che consente di ottenere, alla fine del ciclo produttivo, una eccedenza di beni prodotti, rispetto alle esigenze del consumo necessario alla sussistenza fisica del produttore.

Ma non a caso non si è scritto semplicemente che l’economia signorile sorge sulla base del sovrappiù, e si è detto invece, più complessamente, che essa può sorgere su quella specifica base. In realtà, poiché è proprio nell’ambito dell’economia dell’autoconsumo che deve naturalmente formarsi e viene a rivelarsi storicamente (a un determinato stadio dello sviluppo della produttività del lavoro) un’eccedenza produttiva, nulla vieta che questa eccedenza medesima rimanga nelle mani di quanti l’hanno prodotta; in tal caso, ovviamente, non potrebbe sorgere né la figura del signore ne un’economia signorile.

Però, i produttori che ormai, per ipotesi, detengono un sovrappiù, possono rimanere subalternamente entro il quadro delle categorie tipiche dell’autoconsumo. Ma in una simile ipotesi, allora, essi non possono distinguere in modo netto e inequivocabile, dall’insieme del prodotto, il sovrappiù; non possono prendere coscienza di questa nuova realtà della vita economica; non possono comprenderla e assumerla nella sua specificità e nella sua novità; non possono individuare e scoprire le nuove regole, le nuove forme che discendono, per la stessa economia, dal fatto che un sovrappiù si è formato. L’eccedenza, infatti, nell’ideologia di questi produttori rimasti entro l’orizzonte dell’autoconsumo, diverrebbe, indiscriminatamente, sia occasione e possibilità di maggiori consumi, sia garanzia e riserva di consumo sufficiente per gli anni e per le stagioni di carestia (in una sostanziale confusione dunque tra incremento di consumo e consumo differito ), sia infine, per non dire soprattutto, occasione e possibilità di minor lavoro, di un allargamento del riposo, del tempo libero. Dimodoché si fa chiaro che in tal modo tutte le nuove possibilità dinamiche implicite nel sovrappiù verrebbero, nell’ambito di un anacronistico perdurare dell’ideologia dell’autoconsumo, mortificate e disperse. È questa, in definitiva, la possibile debolezza fondamentale, il possibile limite - che può divenire appunto, a un determinato momento, concreto, e diviene allora catastrofìcamente disumano e antiumano - insito nella fase dell’autoconsumo. Ma è su questa debolezza che s’inserisce l’iniziativa del signore, trovandovi anzi la sua giustificazione storica.

In realtà, se la formazione del sovrappiù è la condizione naturale e storica di base per il sorgere dell’economia signorile, questa sorge poi rea1mente, in concreto, solo quando dalla volontà di un uomo viene posta in atto una determinata e peculiare operazione storica. È appunto l’operazione dello sfruttamento, la quale senza dubbio è voluta da un uomo (colui che diventa il signore) per appropriarsi del sovrappiù prodotto da un altro uomo (colui che viene ridotto a servo). Certo, una simile operazione - poiché appunto in questa volontà consiste e di questa di continuo si alimenta - fa pagare all’umanità il prezzo intollerabile, e foriero di nuove contraddizioni, dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo; e tuttavia, nel tempo medesimo, essa conduce, oggettivamente ma inevitabilmente, a distinguere il sovrappiù, a liberarlo, a enuclearlo da quella indiscriminazione, da quella indistinzione cui rimane condannato nel quadro dell’ideologia dell’autoconsumo, e in cui si viene a perdere tutta la potenzialità dinamica dell’eccedenza.

Ecco dunque perché si è detto più sopra che l’economia signorile può sorgere, e non sorge automaticamente, una volta che si sia formato il sovrappiù. In effetti, poiché la formazione del sovrappiù rende solo possibile la fuoriuscita dall’autoconsumo, e rende dunque solo possibile l’instaurazione di un’economia signorile, è l’atto del signore che fonda realmente l’economia signorile e che perciò rende quest’ultima, da meramente potenziale, storicamente effettuale; ma allora, in definitiva, quel medesimo atto è anche un modo (uno dei modi, almeno, se non certo l’unico possibile in linea di principio, né l’unico storicamente verificatosi) per cui la necessaria fuoriuscita dal limite, divenuto disumano, dell’autoconsumo, trapassi a sua volta dalla pura possibilità alla concretezza storica. Solo che - ed è questo un punto che va particolarmente sottolineato ai fini di questa ricerca - un simile modo, il modo signorile di enucleare il sovrappiù, appunto perché implica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non solo mantiene l’attività produttiva immediatamente, fisicamente ed esclusivamente rapportata al consumo individuale di un consumatore determinato, ma comporta tutta una serie di contraddizioni le quali hanno, anch’esse, un’estrema importanza sul piano dell’urbanistica: sulla natura, sul carattere e sulle leggi peculiari all’insediamento umano preteso da una simile economia.

4. Caratteristiche e leggi del modello signorile

Riassumendo quanto finora si è detto, si può affermare che l’economia signorile nasce quando il sovrappiù, formatosi amano a mano nell’ambito delle unità produttive fino allora caratterizzate dall’autoconsumo, viene appropriato individualmente da un uomo. Ma a quale fine, a quale obiettivo viene ordinata una siffatta appropriazione? A quelli, evidentemente, che costituiscono l’ideale dei signore, il quale in tanto sottrae il sovrappiù ai produttori, in quanto solo così può raggiungere lo scopo di consumare senza produrre e può dunque, per così esprimerci, uscire dalla produzione, uscire dal lavoro.

Da tutto ciò nascono appunto quelle conseguenze che interessano direttamente il discorso urbanistico: in primo luogo, è chiaro che l’operazione dello sfruttamento, l’operazione tipica dell’economia signorile, comporta il permanere di un rapporto fisico, immediato, esclusivo tra l’attività produttiva e il consumo individuale di quel consumatore determinato che è il signore: a un tale consumo è infatti direttamente ordinato il sovrappiù. In secondo luogo poi - ed è questa l’origine di quella serie di contraddizioni di cui sopra si è parlato - poiché il fine dello sfruttamento sta appunto nella fuoriuscita dello sfruttatore dalla produzione, è chiaro che lo sfruttatore medesimo - il signore - si costituisce in puro consumatore; egli diviene, cioè, un consumatore libero dalla necessità di lavorare per consumare, nell’atto stesso in cui l’altro, lo sfruttato, il produttore del sovrappiù appropriato dal signore - insomma il servo - viene ad essere ridotto tutt’intero, nel suo lavoro come nei suoi consumi, a mero strumento produttivo per la soddisfazione di un puro consumo.

Un siffatto consumo - il puro consumo appunto - quel consumo del signore che è divenuto il fine cui tutta l’economia è ordinata, acquista dunque un carattere ed è sottoposto a un destino davvero singolare. Che cosa significa infatti che il consumo signorile è divenuto un puro consumo? Significa che, per principio, esso viene soddisfatto senza che colui che lo soddisfa, il signore, paghi il prezzo del lavoro. È allora un consumo che, liberandosi dal lavoro, si è liberato con ciò dalla sua condizione necessaria, e dunque da ogni necessità, ed è divenuto per questo un consumo libero, un consumo fine a se stesso. In definitiva quindi, e appunto per tutto ciò, esso non può non divenire opulento, non può cioè non crescere su se stesso e complicarsi via via all’indefinito. E di fatto, sottratto com’è ad ogni legge esterna (ove si escluda il condizionamento storico e sociale, per altro continuamente superabile, costituito dalla quantità di sovrappiù disponibile), esso diviene l’espressione materiale medesima della libertà e della dignità del signore, la realizzazione della volontà del signore, del suo arbitrio, del suo capriccio.

Innanzitutto quindi, nella sua forma più immediata e originaria - in quanto cioè consumo dei beni necessari alla sussistenza fisica del signore - esso verrà via via a svi1upparsi e a complicarsi (privo ormai di ogni collegamento persino con le radici naturali di un consumo per l’esistenza) fino alle forme più raffinate, più arbitrarie e più disumane del lusso. Subito dopo, poiché la garanzia della sussistenza fisica del signore fuori dalla necessità del lavoro determina al tempo stesso la piena e totale libertà, la meta-economicità assoluta, e insieme l’irriducibile carattere individuale di ogni possibile attività signorile (attività che appunto si svolge al di fuori della legge comune del lavoro), ecco che il consumo signorile si costituisce come quel punto in cui di continuo vengono drenati, a sostegno di tale attività, i beni e la ricchezza prodotti nel mondo servile dell’economia. Il consumo signorile, così, si costituisce come il punto in cui tali beni trapassano dalla sfera dell’economia alla sfera di quanto non può non definirsi come cultura, come civiltà, poiché vi si esprime tutto ciò che non è servile, tutto ciò che non è immediatamente ed esclusivamente ordinato alla produzione dei beni per la sussistenza fisica, e che tuttavia non a caso - come ormai è facile intendere - ha sempre patito il limite di un individualismo sfrenato, di una barbara negazione dell’umanità in nome dell’esaltazione dell’uomo, e che di fatto, impossibilitato per principio a raggiungere un’universalità sufficiente, ha dovuto sempre soffrire il destino del corrompimento e della decadenza. Ciò che qui soprattutto interessa, tuttavia, è che il consumo signorile possiede, per il suo stesso carattere organico, proprio, cioè, per la peculiare natura che lo contraddistingue e che ne determina le leggi e le prospettive, un’enorme capacità di concentrazione del sovrappiù; al limite e in linea di principio, è sufficiente un solo signore per drenare e concentrare tutto il sovrappiù storicamente esistente.

5. L’insediamento concentrato peculiare all’economia signorile. pomposa Babilonia”

Alla rottura del chiuso e breve cerchio dell’economia dell’autoconsumo (rottura che costituisce, come si è visto, la conseguenza diretta e immediata dell’appropriazione signorile del sovrappiù), viene allora a corrispondere, sul terreno che più strettamente riguarda l’urbanistica, la necessità di uscire dalle forme dell’insediamento sparso. Infatti, parallelamente e contemporaneamente allo spezzarsi di quel processo circolare dell’economia che aveva nell’autoconsumo la sua forma più elementare, più immediata, più staticamente determinata e localizzata; parallelamente e contemporaneamente al porsi del fine del processo economico nel consumo signorile, avviene sul piano sociale -e di conseguenza su quello dell’insediamento umano - una trasformazione altrettanto decisiva. L’esclusivizzata finalizzazione della produzione servile al consumo del signore si riflette e si completa, invero, nella subordinazione del contado (delle unità familiari, delle residenze disperse, delle elementari agglomerazioni dei vi1laggi) alla sede del signore. Questa d’altra parte, appunto per quella organica capacità di concentrazione che è peculiare al consumo signorile, tende ad aumentare, in misura via via crescente, il proprio peso, il proprio potere, e dunque le proprie dimensioni medesime.

Si può dire allora che è strettamente inerente all’economia signorile la necessità di dar luogo a un insediamento umano concentrato. Questo sorge e si sviluppa sulla base della coordinazione e del collegamento dei precedenti nuclei umani, delle preesistenti unità produttive, il cui sovrappiù deve venire regolarmente e sistematicamente rastrellato dagli incaricati del signore per affluire senza tregua alla sua sede, reggia o castello o monastero che sia; e quell’insediamento concentrato, allora, si accresce poi e si agglomera intorno al nucleo centrale del consumo signorile (attorno al punto focale della sede del signore) a mano a mano che l’accumulazione del sovrappiù può e deve dar luogo a una corte; a mano a mano che il consumo del signore e della sua parassitaria “servitù cortese” impone il formarsi di categorie di lavoratori che producano direttamente per il lusso signorile, e che, infine, masse sempre più imponenti di “servitù villana” si insediano attorno al luogo stesso cui è ordinata la loro attività di produttori di sovrappiù.

L’economia signorile può, e deve, dar luogo a un insediamento concentrato. Ma d’altra parte, è facile vedere, sulla base di quel che finora si è detto, che un simile insediamento nulla aggiunge al “castello”, né da esso può distinguersi se non sul piano meramente fenomenologico e descrittivo della quantità delle residenze agglomerate attorno alla sede signorile. In quell’insediamento si concentrano infatti i membri di un’umanità subalterna, che è condannata alla funzione esclusiva di produrre un sovrappiù utilizzabile fuori da essa, fuori dalla sua possibilità di conseguire un effettivo sviluppo umano: vi si concentra, insomma, la massa dei servi, aggiogata a un destino ineludibile di mero strumento di produzione del sovrappiù signorile. E seppure, nel momento e al livello di maggior splendore di tali insediamenti concentrati, questi sono abitati da più illustri personaggi, da individui liberi dalla produzione, costoro, in definitiva, non sono altro che i cortigiani, i clienti; sono insomma i membri di quella classe il cui unico ruolo consiste nel permettere al signore di consumare come opulenza, a fini di lusso o a fini di “civiltà”, il sovrappiù accumulato. Anch’essi sono dunque legati, inevitabilmente e per principio, a una funzione subordinata e servile.

Nell’insediamento concentrato dell’epoca signorile l’umanità, il valore, la dignità, la libertà, l’onore, il fine stesso dell’ordinamento economico, sociale, civile, tutte le caratteristiche, insomma, peculiari dell’uomo, sono dunque effettivamente presenti soltanto nella figura individuale del signore (quindi in modo di necessità deformato). Un simile insediamento umano, pertanto, preso nel suo insieme, ha la sua ragione e il suo fine fuori di sé; esso è alienato dal signore, è schiavo della sua libertà, del suo arbitrio, è anzi il luogo stesso della servitù: è il luogo della residenza di quanti non sono socialmente uomini. È allora impossibile qualificare come vera e propria città un insediamento siffatto. Non sono certamente città quei concentramenti, nati in funzione del consumo signorile del sovrappiù, che, come il Cattaneo acutamente osservava, sono “pompose Babilonie, sono città senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo”. Se pertanto un ordine può mai venir impresso a siffatte Babilonie, se con una regola e una legge si vuole sottrarle al caos, all’anarchia, alla casualità che sono loro connaturati, quell’ordine, quella regola, quella legge possono venire solamente dall’esterno. La regola, la legge, l’ordine non scaturiranno mai organicamente dall’insediamento signorile; essi verranno imposti dal “castello”.

Come l’insediamento omogeneo all’economia dell’autoconsumo, così anche quello compatibile con l’economia signorile non può quindi essere propriamente definito una città. Certo, l’attuale cultura urbanistica è riluttante a riconoscere la validità di un simile giudizio. Ma non è cosa, questa, che possa meravigliare. In verità, se ci si arresta al livello meramente fenomenologico dell’osservazione dei dati più elementari e immediati, se ci si limita a definire la città come un’agglomerazione di residenze, come un insieme quantitativamente rilevante di edifici, come una concentrazione demografica, l’insediamento signorile può essere effettivamente considerato come una città. Ma come pagine addietro si è già affermato, simili definizioni sembrano del tutto insufficienti. Difatti - come si vedrà in seguito - quelle definizioni non permettono di riconoscere la vera natura della città, le condizioni della sua affermazione storica, le tappe obbligate della sua rinascita, della sua fuoriuscita dall’attuale situazione di crisi. Si può dunque ritener confermata, almeno in prima approssimazione, la tesi più sopra enunciata: nessuno degli schemi, nessuno dei modelli economici in cui l’attività produttiva conserva la caratteristica di essere rapportata in modo immediato, fisico, esclusivo, al consumo individuale di un consumatore determinato, è capace di postulare una città.

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