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Virgilio Testa
La espropriazione nel piano regolatore
8 Aprile 2004
Una disamina, con curiosi riferimenti storici, del rapporto fra interesse pubblico e privato. Ognuno, come sempre, può trarre dal saggio le conclusioni che ritiene più opportune, ma a introdurlo lascio siano le parole dello stesso Autore: "oggi i piani regolatori sono un organismo complesso, nel quale sfociano e chiedono soddisfazione non le sole esigenze della viabilità o del traffico, già di per sé sole enormi e multiformi, ma quelle dell’igiene, quelle del decoro nazionale, quelle dell’arte. È possibile, è fascisticamente possibile che la loro soluzione, totalitaria ed integrale, della quale solo può appagarsi l’anima moderna, debba dipendere dall’esistenza di un preciso interesse del proprietario collimante con quello della collettività?" [illustrazioni scelte da fabrizio bottini]

da: L'Ingegnere, aprile 1933

Il tema dell’espropriazione nel piano regolatore assume sapore di grande attualità, poiché è in fondo attraverso il passaggio di beni privati all’ente pubblico che è stato possibile dar vita in questi ultimi tempi a grandiose sistemazioni genialmente improntate ai migliori criteri che gli urbanisti hanno bandito per tanti anni, voci isolate nel deserto di una generale incomprensione.

La modificazione di importanti nuclei abitati, che nella Capitale ha raggiunto grandiosità suggestiva, ma che in quasi ogni altra città del Regno ha rinnovato ambienti ed aspetti, con la trasformazione quasi magica della fisionomia di alcuni centri urbani, ha animato e fatto vibrare una vera e propria sensibilità urbanistica collettiva, latente nel pubblico, e insieme ha facilitato, con lo splendore dei risultati conseguiti, la tacitazione di quel sentimento di rammarico giustamente provato allorquando la distruzione di aspetti caratteristici delle città fu operata per dar vita ai casermoni più o meno ministeriali di certi ben noti quartieri sorti ai tempi di Zanardelli e Depretis. Oggi, dinanzi al magnifico scenario della via dell’Impero, alla suggestionante evocata vicinanza dei monumenti più insigni di una storia millenaria con la Tomba del Milite, che nel suo olocausto tale storia ha insieme coronato e fecondato, dinanzi a questa visione veramente unica e privilegiata della gloria storica della Nazione, nessuno oserebbe isolarsi in una commemorazione delle casupole di via Cremona, discettando se e fino a qual punto sia stata legittima la loro strage in base a un criterio di utilità, laddove di utilità nel senso usurario della parola può non esservi traccia. Simile cercatore malinconico di farfalle sotto l’arco di Tito certamente oggi più non esiste; ma un tempo ancora a noi vicino forte e quadrata era la legione di coloro che il miglioramento estetico ed igienico della città intendevano dovesse essere del tutto subordinato al minimo sacrificio delle proprietà dei singoli.

Non del tutto colpevole e condannevole legione, intendiamoci bene, ché nessuno può negare come la ben diversa condizione in cui la vita cittadina si svolgeva potesse giustificare la prudenza nel gravare di vincoli la proprietà privata.

Alcune considerazioni statistiche possono del resto spiegarlo esaurientemente.

Prendiamo tre date della storia recente di Roma, che corrispondono a tre censimenti generali della popolazione : 1881, 1911, 1931.

Nel 1881 Roma contava 300.467 abitanti e il suo aggregato edilizio si stendeva su una superficie approssimativa di 700 ettari.

Nel 1911 la popolazione della città era salita a 542.123 abitanti .e la superficie dell’abitato a 1400 ettari.

Nel 1931 gli abitanti sono diventati 1.008.083 e la Superficie dell’abitato occupa un’estensione di 2800 ettari.

Nel corso di mezzo secolo, quindi, la popolazione della capitale si è triplicata e la superficie della città all’incirca quadruplicata.

Nel 1881 si calcolava che circolassero nella città 5300 vetture, 44 vetture tranviarie, 240 omnibus; complessivamente 5600 veicoli, tutti a trazione animale, esclusi i carri da trasporto.

Nel 1911 tale numero era sceso a 4700, ma la diminuzione era stata compensata da circa 350 automobili private, (esclusi gli autocarri), 100 taxi, 300 vetture elettriche tranviarie, 100 motocicli.

Nel 1931 i veicoli assommano a più di 16.000, dei quali appena 897 a cavalli e oltre 15.000 a motore, esclusi gli autocarri: le vetture tranviarie in circolazione sono circa 600 (delle quali quasi un terzo con rimorchio): sono poi entrati in servizio pubblico oltre 200 autobus.

I veicoli nell’ultimo ventennio, quindi, non soltanto sono aumentati in proporzione più ragguardevole del numero degli abitanti e della superficie dell’abitato, ma si sono anche completamente trasformati: le vetture tranviarie (compresi gli autobus) sono quasi triplicate; le vetture a motore sono aumentate del 3300 per cento: nella stessa proporzione sono aumentati i motocicli, saliti da 100 nel 1911 a 3480 nel 1931. V’è di che spaventarsi !

Ma non basta. A complicare i problemi della circolazione sta il fatto che circa il 75 per cento dei veicoli medesimi transita quasi esclusivamente nelle zone corrispondenti al vecchio nucleo centrale, poiché è qui che sono rimasti concentrati gli uffici pubblici più importanti e i negozi più accreditati e meglio forniti; è qui che si trovano i migliori locali di divertimento, le scuole secondarie e superiori, le biblioteche, le banche; è qui che si vanno concentrando gli organismi direttivi dei più importanti enti commerciali e industriali. D’altra parte mentre la velocità media dei veicoli è enormemente aumentata, le necessità di spostamento degli abitanti nell’interno della città sono anch’esse accresciute moltissimo, con la progressiva zonizzazione dell’abitato, che ha separato i quartieri degli uffici e degli affari da quelli residenziali, obbligando la maggior parte dei cittadini a percorrere varie volte ogni giorno lunghe distanze per sopperire alle necessità della vita o per svolgere la loro normale attività.

A questo stato di cose, così radicalmente e, diciamo pure, così improvvisamente trasformato, occorre adattare l’organismo cittadino, il quale non è la risultante della coesistenza e della contemporaneità di tanti minuti interessi, della coabitazione di atomi individuali, ma esiste e vive secondo le leggi di una superiore biologia, cui è necessario rivolgere lo studio per proteggerlo nel suo sviluppo e per evitare irrimediabili deformazioni e pericolose malattie.

Ben si comprende, pertanto, come oggi si manifestino necessità imperiose di sistemazioni e di trasformazioni che un tempo sarebbero apparse concezione di una mente allucinata.

Quando le città dormivano il placido sonno della vita comunale e rionale, della economia artigiana e familiare, notevoli modificazioni ad alcune parti dell’aggregato edilizio potevano essere il frutto della magnificenza di un pontefice o di un principe, ma non erano mai quello che esse sono oggi (anche quando, come in Roma, la innata grandiosità delle cose le trasfiguri in creazione di bellezza e in arte). Non erano atti operatori, direi quasi atti di chirurgia ortopedica per salvare un organismo improvvisamente sottoposto alle influenze distruggitrici di un clima e di un ambiente per il quale non era stato creato. Poiché tale è stata ed in gran parte è ancora la condizione della città europea nel secolo ventesimo! Nata sul pianeta dove vivevano il bue e il cavallo, e magicamente trasportata, come un personaggio di Giulio Verne, quasi in una sola notte fatata, sul pianeta dove vivono l’automobile e l’aeroplano, essa deve adattarsi interamente alle nuove condizioni di vita e deve farlo con provvedimenti radicali e solleciti, perché l’attesa anche breve non solo non risolve ma complica enormemente i problemi da affrontare.

Strumento chirurgico a questo arduo lavoro di rifacimento di tessuti sono precisamente i Piani Regolatori. Che cosa sia il piano regolatore, definirlo con la maggiore esattezza possibile, abbandonando queste metafore, non è cosa agevole! Se l’urbanistica è stata definita: “l’arte di sistemare le città in modo che la vita umana vi si possa svolgere nelle migliori condizioni possibili”, il piano regolatore è il mezzo che rende possibile I’estrinsecazione di quest’arte, preordinando l’assetto futuro di un dato aggregato edilizio, determinando le variazioni da apportarvi e le linee da osservare nel suo ampliamento, fissando i criteri per la organizzazione dei pubblici servizi e i vincoli ai quali, per la perfetta sistemazione dell’abitato, dovranno essere sottoposti i beni immobili privati.

Esso ha, dunque; due grandi ed essenziali funzioni, la prima più generale, di piano strategico dello sviluppo del!a città, quello che l’amministrazione comunale e i suoi servizi tecnici dovranno seguire per raggiungere lo scopo prescritto dai principi urbanistici, la seconda, più particolare, di guida per i cittadini nella utilizzazione delle aree fabbricabili e nelle eventuali trasformazioni degli immobili di loro proprietà.

Nell’adempimento della prima funzione è ineluttabile che il piano regolatore debba portare sui beni privati il grave onere della espropriazione.

Questa, badiamo bene, ebbe ad esistere anche prima che le questioni urbane assumessero un carattere tanto grave e, come dicevo innanzi, addirittura tragico per le forti esigenze del traffico e per lo straordinario incremento della popolazione urbana. Quando le condizioni di vita negli agglomerati urbani non presentavano che ristrette esigenze di carattere collettivo, anche allora la espropriazione per il compimento di lavori edilizi fu ammessa e riconosciuta.

Nell’antica Roma, per esempio, da quanto ci permettono di giudicare importanti tracce che ce ne sono rimaste, doveva esistere una preoccupazione legislativa intorno a questioni che potremmo chiamare di piano regolatore. Troviamo infatti in vari scrittori il ricordo di vere espropriazioni compiute per eseguire determinate sistemazioni urbane; e l’isolamento del Campidoglio ha un precedente notevole nell’obbligo che, secondo quanto Cicerone ci ricorda, venne imposto ad alcuni proprietari di abbassare gli edifici che nascondevano la vista delle costruzioni sacre esistenti sul Colle glorioso. Un altro autore, Frontino, nel suo famoso libro De aquis urbis Romae, riporta un senatoconsulto col quale si stabilisce che gli acquedotti anche nell’interno della città debbano essere fiancheggiati da una zona di rispetto di 15 piedi, mentre per la loro costruzione il Senato può acquistare forzosamente (cioè espropriare) le aree necessarie che i proprietari non vogliono cedere.

Questi ed altri esempi, che ritengo superfluo riportare, ci convincono che se non esisteva presso i romani un complesso di leggi scritte, aventi carattere di genéralità e dirette a vincolare i beni privati nell’interesse del miglioramento dei centri abitati e del buon funzionamento dei servizi pubblici, si aveva cura caso per caso, quando la necessità lo richiedesse, di imporre provvedimenti allo scopo sopraindicato.

Scendendo lungo il Medioevo, mentre in non pochi statati comunali italiani troviamo norme disciplinanti la cessione dei beni privati al comune per opere di edilizia, tali tracce si smarriscono quando arriviamo alla formazione delle signorie e dei principati; tuttavia non mancarono provvedimenti di carattere saltuario dovuti a quei principi che per mecenatismo e gusto italiano della magnificenza vollero legare il loro nome a grandi opere di trasformazione urbana.

Un vero e proprio carattere di norme urbanistiche hanno le disposizioni contenute nel Capo VIII dello Statuto romano del 1410, le quali, determinando la competenza dei “Maestri delle Strade”, autorizzano questi a provvedere ex officio alla “reparatione et reformatione viarum et stratarum publicarum et aliorum locorum ac etiam aedificiorum, fontium, pontium et cursuum aquarum tam in Urbe quam extra Urbem”.

I nuovi statuti emanati da Nicolò V nel 1452 confermano e precisano meglio l’ingerenza dell’autorità statale nei problemi di carattere edilizio, stabilendo che i maestri delle strade possano “far tagliare, ruinare, cavare, rompere et mozare ogni tecto banco, migniano, porticho, muro, tavolato, steccato, colonnato, cosse de muro et ogn’altro edificio de qual un che cosa fosse lavorato, de muro, de legna, de preta et de fero che daessi impaccio et impedimentissero le cose publiche”.

La bolla Etsi de cunctarum civitatum di Sisto IV, pubblicata il 30 giugno 1480, riaffermando ancora una volta la facoltà di occupare edifici privati per sistemazioni edilizie, dettò norme per la determinazione dell’indennità da pagare ai proprietari, ponendo a base del calcolo relativo il fitto da essi percepito, e rese possibile l’imposizione della cosidetta taxa per la ruina, la quale non era altro che un contributo a carico di tutti coloro che dall’esecuzione delle opere pubbliche venivano a risentire un miglioramento nelle loro proprietà.

Infine carattere di norme urbanistiche e di espropriazione per fini urbanistici hanno le norme contenute nella Constitutio de aedificiis di Gregorio XIII (Boncompagni) in forza della quale i proprietari potevano essere costretti a vendere le case e le aree situate in qualunque zona di Roma, al prezzo fissato dai maestri delle strade, quando ciò fosse necessario per aprire nuove strade o piazze ovvero per rettificare e porre in comunicazione fra loro quelle esistenti.

Come si vede, dunque, i nostri antenati non erano più al sicuro di noi dalle sorprese che potevano cogliere il pacifico godimento dei loro beni immobili. Anche verso il 1500, i maestri delle strade si presentavano al proprietario di un immobile, gli notificavano il prezzo di stima, in base al quale doveva cedere il suo fondo, e inauguravano così molto probabilmente la serie delle controversie fra il buon quirite del tempo e il palazzo del Senatore. Né più né meno di quanto succede adesso, se pure non con la frequenza e la vastità che la grandiosità dei lavori in corso in questo periodo di rinnovamento delle città esige in Italia e all’estero.

Il problema dell’espropriazione fu quindi strettamente connesso con quello delle sistemazioni urbane fin da quando si pensò la prima volta a compiere adattamenti dei nuclei edilizi ai bisogni vari della collettività, cioè praticamente fin da quando incominciarono ad esistere le città. E tale si mantiene oggi.

Certo, sarebbe lodevole cosa se le amministrazioni comunali potessero essere in grado di acquistare tutte le aree e gli edifici sui quali presumibilmente dovrà svilupparsi un’attività urbanistica. La formazione di un esteso demanio agevolerebbe enormemente il compito dell’amministrazione, perché eliminerebbe ogni contestazione con i privati durante l’esecuzione di un piano regolatore e quindi assicurerebbe a questo un’eccezionale rapidità di attuazione.

In realtà il piano regolatore non avrebbe allora altra funzione che quella di fissare i criteri di sistemazione e di sviluppo dell’aggregato edilizio per dar modo ai cittadini di coordinare le loro iniziative a quelle dell’amministrazione.

Ma questo metodo, che in altri paesi e specialmente in Germania è stato largamente praticato dalle amministrazioni comunali, non può essere facilmente adottato presso di noi. Nella maggior parte dei casi, quindi, l’amministrazione comunale deve richiedere la cessione forzata dei beni, cioè ricorrere alla espropriazione.

La materia della espropriazione è stata oggetto in Italia, come ognun sa, di grandi studi e di continue modificazioni. Come il malato manzoniano, questo istituto, nato vigoroso dall’articolo 29 dello Statuto, ma venuto su un po’ gracile nell’adolescenza della Legge del 1865, si è voltato e rivoltato nel suo letto, sempre illudendosi di star meglio, e cercando una posizione definitivamente comoda senza poterla trovare. E ancora esso si allunga e si stende nei provvisori giacigli delle disposizioni particolari, quasi su un letto di Procuste, ciò che risulta di gravissimo danno non solo per i privati ma anche per le amministrazioni locali, alle quali riesce impossibile formulare programmi finanziari per l’esecuzione dei piani regolatori che non diano poi, nel corso delle realizzazioni, delle dolorose sorprese.

Le questioni, che formano ancora oggetto di vivo contrasto fra privati e autorità locale in materia di espropriazioni per opere di piano regolatore, traggono generalmente origine da uno di questi due motivi o da entrambi: l’ammontare dell’indennità, l’estensione dell’espropriazione.

Parliamo prima dell’indennità, che rappresenta, presso di noi e altrove, il punto sul quale l’accordo fra espropriante ed espropriato non si realizza quasi mai immediatamente.

Ammesso il diritto di espropriare un bene privato quando con questo si serva un interesse pubblico, rimane incombente su tutta la questione il dovere dello Stato di garantire al cittadino l’integrità, se non formale, almeno economica del suo patrimonio. Il cittadino, al quale la pubblica amministrazione è costretta a togliere un bene perché così esige l’interesse della collettività, non deve essere una vittima offerta in olocausto alla collettività medesima: a questa egli sacrificherà quasi sempre molti valori sentimentali, di affetto ai luoghi, di abitudini, di tradizioni familiari viventi fra le mura che il piccone della demolizione abbatterà; danni morali, che quasi tutte le legislazionI moderne escludono dalla valutazione dell’indennità, perché esiste una reale impossibilità di apprezzarne esattamente la portata non perché sia considerato equo l’ignorarli. Aggiungere ad essi anche un danno economico diminuendo il patrimonio dell’espropriato attraverso l’adozione di ingiusti criteri o di errata procedura per la determinazione dell’indennità sarebbe veramente eccessivo.

Il patrimonio del privato espropriato deve dunque rimanere intatto nel suo valore economico. Ma in qual modo ottenere questa integrità è più facile a dirsi che ad attuarsi; tanto vero che dalla legge del 1865 ad oggi il modo che si avvicini ad una certa perfezione e che non si traduca né in un danno del cittadino né in una perdita per l’amministrazione, non è stato ancora trovato.

La legge del 1865 era stata esplicita nello stabilire che l’indennità di espropriazione dovesse corrispondere al giusto prezzo che l’immobile avrebbe avuto in una libera contrattazione di compra-vendita. In teoria, nulla di più saggio e di più equo: e noi possiamo dire che l’articolo 39 il quale sancisce questo principio, è il vero figlio legittimo delle giuste nozze dell’articolo 29 dello Statuto albertino e dell’articolo 438 del Codice Civile.

Ma nella vita pratica il savio ragazzo non ha fatto troppo buona prova. La prima difficoltà, contro la quale è andato a cozzare, è stata quella dei criteri da seguire per la determinazione del giusto prezzo che l’immobile avrebbe avuto in una libera contrattazione. Fissare dei criteri direttivi non sembrò opportuno al legislatore del tempo, per tema che essi inceppassero il raggiungimento di una valutazione equa, meglio conseguibile, a suo modo di vedere, attraverso il giudizio dei periti e del Tribunale.

La dottrina e la giurisprudenza si sono affaticate in seguito a determinare questi criteri da tener presenti nella stima dei beni da espropriare, e ne hanno infatti stabiliti alcuni che sono stati generalmente accettati, almeno nella maggior parte dei casi pratici.

Al principio che nella stima non si debba tener conto dello speciale attaccamento che il proprietario abbia per il bene da espropriare altri se ne sono aggiunti più o meno fondati su rigorosi principi di equità.

Si è stabilito, ad esempio, che il valore di avviamento di un’azienda commerciale gestita nello stabile espropriando non debba essere calcolato nella determinazione della indennità, principio questo assai discutibile, poiché non si tratta dell’attaccamento sentimentale che uno possa avere per il bene di sua proprietà, ma di un elemento del quale il proprietario avrebbe tenuto grandissimo conto nel vendere liberamente lo stabile.

Si è stabilito altresì che nell’indennità non si calcolino i vantaggi ipotetici che il proprietario avrebbe potuto ricavare attraverso iniziative, le qualI non siano già in atto o i cui effetti non appaiano attualmente indiscutibili, mentre deve tenersi conto degli aumenti di valore che i fondi, se non fossero stati espropriati, avrebbero sicuramente realizzato per la loro stessa natura o per circostanze già in essere al momento dell’esproprio.

Si è riconosciuto che deve calcolarsi nella determinazione della indennità la diminuzione effettiva che il patrimonio del privato viene a risentire dall’espropriazione, non calcolare quindi il vantaggio.che possa derivarne alla parte dell’immobile ceduta. Si è precisato, infine, che l’indennità deve essere commisurata al valore dell’immobile al momento nel quale viene effettuata l’espropriazione, non al momento nel quale viene approvato il progetto dell’opera pubblica (nel caso nostro il piano regolatore). A questo principio, tuttavia, numerose disposizioni particolari hanno derogato, stabilendo invece che per la determinazione del valore si debba far riferimento alla data di pubblicazione del piano, disposizione invero che solo può considerarsi giustificata quando una rapida procedura renda breve l’intervallo tra la pubblicazione del piano e l’espropriazione, poiché senza danneggiare il privato, si salva in questo caso l’amministrazione comunale dal sopportare l’onere di aumenti di valore i conseguiti proprio in base al piano regolatore. Ma l’aver fissato tutti i criteri suddetti poco o nulla ha giovato nella pratica, poiché grave e fondamentale difetto delle disposizioni legislative è di aver affidato alla perizia di tecnici la determinazione delle indennità. Tale sistema in pratica non ha mai dato risultati ottimi, perché, nell’assenza di norme fisse, che guidino il loro apprezzamento, i periti non possono sottrarsi all’influenza di mille elementi soggettivi che finiscono per portare a delle sperequazioni notevolissime. Donde vibrate proteste dei danneggiati, talora degli stessi espropriati, più spesso delle pubbliche amministrazioni esproprianti. Un primo tentativo di porre una norma per la determinazione della indennità si ebbe, come è noto, con la legge 15 gennaio 1885, emanata per la città di Napoli, dove si dovevano eseguire grandi opere di risanamento atte ad eliminare il pericolo di nuove epidemie. Se nel pagare le indennità di esproprio si fossero dovute applicare le modalità della legge del 1865, il danno patrimoniale che molti proprietari avrebbero risentito sarebbe stato gravissimo, perché gli immobili da demolire erano in condizioni pietose. vecchi e cadenti, e di valore venale minimo, mentre il reddito effettivo era piuttosto alto, dato che in essi abitavano innumerevoli famiglie aggiustate alla meglio, con francescana adattabilità, in ogni metro cubo disponibile. I proprietari napoletani sarebbero stati addirittura rovinati, perché mai l’interesse della somma, che sarebbe stata loro pagata a titolo di indennità, avrebbe potuto avvicinarsi alla somma delle pigioni annualmente riscosse.

Da queste considerazioni il legislatore fu mosso a introdurre per la città di Napoli un criterio nuovo di determinazione delle indennità, stabilendo che per fissarla si dovesse prendere a base la media del valore venale e dei fitti coacervati dell’ultimo decennio, o, in mancanza di questi, dell’imponibile netto agli effetti della imposta fondiaria. Molta, troppa fortuna ebbe questa disposizione della legge per Napoli, poiché venne estesa a numerosi casi nei quali per vero non concorreva nessuna di quelle particolari condizioni che ne avevano suggerito l’adozione per la città di Napoli. E in molti casi quella che era stata misura di sollecitudine verso i proprietari si trasformò in una vera e propria iniquità per altri proprietari, specialmente quando, con la guerra e con i decreti sui fitti, il coacervo di questi dette una somma veramente irrisoria per determinare il valore venale dell’immobile da espropriare. Avemmo cosi un’era che non è esagerato definire iniqua e della quale non poche fortune private soffersero. A onor del vero, però, bisogna aggiungere che le pressioni delle amministrazioni comunali per ottenere l’estensione ai loro piani regolatori delle disposizioni della legge su Napoli non erano ispirate solo da un criterio di economia, ma assai più dalla preoccupazione di poter giungere rapidamente alla determinazione dell’indennità e quindi al provvedimento di espropriazione, che rendeva possibile l’esecuzione delle opere previste nei piani medesimi. Erano i fortunosi tempi della crisi degli alloggi e nei baraccamenti abissini, e la necessità, ancora una volta non aveva legge ... Possiamo dunque dire, con un po’ di benevolenza per le amministrazioni locali, che era la rapidità nella procedura di esproprio, più che il lucro, quello che le amministrazioni cercavano di conseguire abbandonando la vecchia e tarda legge del 1865, prova evidente che di una buona legge sull’espropriazione e sui piani regolatori uno degli elementi essenziali è appunto quello della rapidità procedurale atta ad impedire che l’esecuzione delle sistemazioni edilizie trovi ad ogni passo un incaglio nelle controversie fra autorità e proprietari.

Naturalmente doveva prodursi con questa estensione della legge per Napoli un vasto movimento di opposizione: infatti le proteste e le lamentele, le critiche dottrinali e quelle a sfondo politico furono talmente numerose che nelle leggi speciali su piani regolatori di recente approvati si dovette venire ad una radicale revisione della materia.

Il concetto della legge per Napoli, di tenere cioè un elemento obbligatorio di controllo e di riscontro delle risultanze peritali, che si era malgrado tutto rilevato fondamentalmente buono, idoneo cioè ad evitare incertezze dannose agli stessi proprietari oltreché all’amministrazione espropriante fu mantenuto. Si cercò tuttavia di migliorarlo, sostituendo al coacervo dei fitti, dato di valore incerto e discutibile, perché dipendente da troppe circostanze diverse da luogo a luogo, il reddito imponibile capitalizzato a un tasso variabile entro certi limiti, elemento questo che permette una più equa valutazione attraverso un esame accurato delle condizioni dell’immobile espropriando.

Questo criterio è stato accolto anche nella legge per il piano regolatore di Roma. Ma anche ad esso sono state rivolte critiche acerbe, in quanto vi si è voluto scorgere una volontà del legislatore di favorire la civica amministrazione attraverso quella legge per Napoli che ad essa si era mostrata in passato tanto favorevole. Sono fondate tali critiche o sono in gran parte determinate dall’incapacità di comprendere quanto sia difficile assicurare la precisione in una materia che gli stessi economisti non riescono a definire esattamente: che cosa sia il valore dei beni ? Noi vogliamo onestamente insistere sul fatto che !a legge per Napoli fu fatta precisamente per avvantaggiare i proprietari e che solo le specialissime circostanze derivate dalla guerra hanno potuto trasformarla in un grave danno per essi. Fissato questo punto e tenuto presente che la variabilità del tasso permette di eliminare le conseguenze di una capitalizzazione fondata su imponibili troppo bassi, non può disconoscersi il vantaggio che deriva dall’eliminazione di quelle enormi disparità che troppo spesso si verificavano quando le valutazioni erano affidate semplicemente al giudizio soggettivo dei periti. L’imponibile, che gli uffici fiscali stabiliscono seguendo una norma costante per tutti i beni di una determinata zona, mediato col valore venale, contribuisce infatti ed elevare le perizie per avventura troppo basse e a mitigare viceversa le conseguenze di criteri troppo larghi posti a base della perizia stessa, mentre la variabilità del tasso serve, nella determinazione dell’indennità per fondi di natura analoga, a tenere più alto il valore di quelli meglio conservati, dl quelli aventi un particolare valore storico o artistico o di quelli il cui reddito imponibile sia stato accertato in epoca lontana. È allontanata, insomma, se non impedita del tutto, la possibilità di ingiustizie derivanti dall’applicazione meccanica di criteri di valutazione fondati su calcoli puramente aritmetici.

Del resto non può ammettersi una tendenza del legislatore a favorire le amministrazioni, concedendo loro di poter espropriare i beni privati ad un prezzo inferiore al valore venale, poiché, se questo si verificasse in fatto, ben presto si formerebbe a combatterla una insormontabile resistenza, tale da rendere vano qualunque sforzo delle autorità municipali ... E non è solo per considerazioni di equità, ma anche nel senso di un “sacro egoismo” amministrativo lungimirante che gli urbanisti, assertori strenui della necessità di agevolare la formazione e l’esecuzione di piani generali rispondenti alle necessità della vita moderna, affermano che si deve rinunciare a qualsiasi trattamento di favore per i comuni, se esso deve tradursi in un danno per i cittadini. Partendo da questo concetto, ammettiamo che sarebbe preferibile il criterio puro e semplice della corrispondenza dell’indennità al valore venale, se questo valore fosse stabilito in base ad elementi tali da assicurare a parità di condizioni, una perfetta uguaglianza del prezzo di stima; ma finché la determinazione del valore venale dovrà essere lasciata alla discrezione non sempre discreta dei periti, siano essi pure i più onesti e i più abili, il mantenere un termine di raffronto che possa al tempo stesso funzionare da correttivo, è consigliabile sotto ogni punto di vista, tanto più se questo correttivo non è destinato a funzionare meccanicamente, ma può essere opportunamente modificato e regolato attraverso un diligente esame delle condizioni dell’immobile da espropriare.

Alcuni hanno osservato, e invero l’osservazione è di notevole efficacia, che il dato dell’imponibile catastale non è sempre idoneo a servire alla delicata operazione della determinazione dell’indennità, perché esso è per lo più accertato a intervalli abbastanza lunghi e perché ha una rigidità che lo rende talvolta non rispondente al reddito effettivo del fondo al momento dell’espropriazione. Ma se questa osservazione è fondata allo stato attuale della nostra legislazione, essa non ha valore nei riguardi di una futura legge generale, poiché in questa potrà essere contemplata la revisione frequente del catasto urbano, intesa appunto ad aggiornare i dati che occorreranno in sede di determinazione delle indennità di espropriazione, così come è stato previsto nella legge di conversione del Decreto 6 luglio 1931 per l’approvazione del piano regolatore dell’Urbe.

Crediamo, dunque, di dover concludere che se l’applicazione dei criteri della legge del 1885 ha potuto nella pratica e per il concorso di eccezionalissime circostanze dar luogo ad uno stato di fatto veramente irrazionale ed iniquo, non per questo bisogna bandire e rinnegare quei criteri; essi anzi debbono essere accolti dai futuri provvedimenti urbanistici, con opportune modifiche intonate al precedente del piano regolatore romano, le quali offrono il metodo migliore per la determinazione di un’indennità giusta e ragionevole e permettono all’amministrazione comunale di preparare piani finanziari fondati su dati certi, non suscettibili quindi di essere sconvolti da quelle sorprese che in passato hanno troppo spesso reso inattuabili piani regolatori eccellentemente studiati in ogni loro dettaglio.

Ma un progresso essenziale e sostanziale sarà raggiunto in questa delicata materia quando, come per Roma, la determinazione della indennità non sarà più affidata a dei periti nominati caso per caso. Sottrarre la determinazione dell’indennità al giudizio di tecnici nomadi fra una causa e l’altra è il modo migliore per assicurare alle perizie e alle valutazioni quell’uniformità che sola può tranquillizzare i privati e gli amministratori pubblici.

Questo dicendo, non voglio affatto insinuare il benché minimo sospetto contro la benemerita categoria dei periti ingegneri, ma per ripetere le parole dell’illustre Pisanelli, che pure li chiamò in azione, “essi sono gente della città dove sono chiamati a esercitare la loro funzione; vi hanno relazioni, amicizie, legami di affari e di commercio fra quegli stessi proprietari dei quali debbono fissare la sorte; non sarà umano che fra i privati, che li assediano di insistenze di ogni genere, e le amministrazioni, che rimangono impassibili e remote da qualsiasi mezzo di pressione, essi prendano più a cuore gli interessi dei primi che quelli delle seconde?”. Pertanto, dopo un’esperienza che ormai conta più di mezzo secolo, noi siamo convinti che, almeno per quanto riguarda le opere di piano regolatore, il loro carattere di urgenza e la loro complessità, debba seriamente riprendersi in esame la materia, per vedere se non convenga adottare un sistema che almeno in parte si avvicini a quello, da tempo prosperante in Francia e in Inghilterra, del giurì di espropriazione; non certo imitandolo in tutta la sua fisionomia, che pecca di astrattismo democratico, ma saviamente equilibrandolo con quegli elementi di sapere tecnico che il Fascismo ha introdotto saviamente anche nelle giurie penali.

La formazione di un collegio speciale tecnico per ogni piano regolatore, riassumente in sé ed unificante nel suo funzionamento i compiti fino ad oggi spettanti al tribunale e ai periti, rappresenta il mezzo più acconcio e più moderno per risolvere la questione vessata dell’indennità di espropriazione e del modo di determinarla. Si ha infatti massima garanzia di capacità e di indipendenza e insieme possibilità di dare alla procedura per la determinazione della indennità quella rapidità della quale si ha il massimo bisogno, e che finora in nessun modo si è potuto ottenere, per quanto buona volontà ne abbia avuto il legislatore. Inoltre, poiché nell’attuazione di un piano regolatore l’espropriazione avviene fra beni generalmente simili e dislocati in un territorio relativamente limitato, il giudizio affidato ad un collegio permanente permette di fissare opportuni criteri di massima e di applicarli a tutti i successivi giudizi: attuando quella identità di trattamento fra i vari espropriandi che non può certo ottenersi con l’opera di periti e di giudici destinati a cambiare continuamente. Ché se pure nel seno del Collegio le singole persone sono destinate a cambiare, rimane tuttavia immutata la tradizione, e la prassi del corpo giudicante a garantire dal pericolo di un mutamento radicale di indirizzo.

Tale istituto collegiale tecnico, già sperimentato per le zone sismiche, ha fatto il suo ingresso definitivo nella legislazione italiana col più importante e più completo, col migliore atto legislativo che I’urbanistica abbia fino ad oggi suscitato in Italia: il citato Decreto del 6 luglio 1931. Questo decreto, che gli studiosi e i tecnici hanno salutato come il preludio, l’araldo annunciante la generale norma urbanistica per tutte le città del Regno, ha infatti demandato la determinazione della indennità di espropriazione al giudizio inappellabile di un collegio tecnico, presieduto da un magistrato per assicurare nel modo migliore la sua indipendenza non meno che la sua capacità. In tale maniera sono stati fusi in uno solo gli ultimi due stadi del vecchio sistema procedurale, la perizia del tecnico e il giudizio del tribunale, con grande vantaggio per la celerità di tutte le operazioni. E noi siamo sicuri che l’esperienza conforterà largamente tale audace novità legislativa, trionfando di tutte le diffidenze e le apprensioni che questo, come ogni cambiamento di consuetudini, può avere suscitato in taluni ambienti della proprietà edilizia.

Altra questione di somma importanza in sede di espropriazione è poi l’estensione del ‘potere accordato all’autorità comunale.

Quando si deve provvedere all’-apertura di una nuova strada mediante demolizioni o sventramenti ovvero quando si debba rettificare un’arteria esistente con l’abbattimento totale o parziale di alcuni edifici, deve l’amministrazione limitarsi a chiedere l’espropriazione del fabbricato situato sull’area da destinare a sede stradale, o può domandare anche il trasferimento degli edifici e delle aree latistanti per provvedere alla loro sistemazione in conformità dei criteri che presiedono al piano generale dei lavori intrapresi ? E, trattandosi di quartieri di nuova formazione, deve l’amministrazione, che ha costruito le nuove strade, lasciare che i proprietari facciano sorgere gli edifici nelle aree Iatistanti quando e come credano, ovvero può avere la possibilità di assicurare l’utilizzazione dei capitali, impiegati nelle sistemazioni di piano regolatore, espropriando le aree medesime e provvedendo, direttamente o mediante enti di sua fiducia, all’edificazione su di esse, allo scopo di dar impulso alla rapida formazione di nuovi nuclei edilizi e venire incontro alle esigenze che hanno determinato l’approvazione del piano?

Fin dai tempi della legge del 1865 la possibilità era ammessa implicitamente e il cauto e liberale ministro Pisanelli, pur cosi riguardoso della privata proprietà, scriveva nella sua relazione al Parlamento delle parole che potrebbero essere ripetute oggi da qualsiasi urbanista per sostenere l’opportunità dell’espropriazione per zone, senza la quale potranno bensì essere condotti a termine dei lavori di sistemazione di carattere utilitario, ma non sarà mai possibile provvedere a quella ben più alta missione che l’urbanistica assegna alle civiche amministrazioni, la missione cioè di sistemare le città ricercando il miglioramento delle condizioni igieniche e di viabilità e ispirandosi a criteri di organica bellezza, conservando cioè o restaurando il patrimonio artistico e archeologico, di cui, quale più quale meno, tutte le nostre città sono largamente dotate.

A questo proposito uno scrittore belga, il De Levaleye, fin dal 1863 si rammaricava che l’impossibilità, nella quale il legislatore aveva messo le amministrazioni comunali di espropriare per zone, avesse impedito che nel suo paese le opere edilizie assumessero quel carattere di grandiosità che avevano invece in Francia, nella Francia di quel secondo Impero che “non lasciò altro di sé, ma in questo fu veramente grande, poiché col genio di Haussmann seppe trasformare la Parigi di Luigi Filippo nella stessa Parigi che oggi accoglie senza sforzo uno dei più grandi fenomeni di spettacoloso urbanesimo.

Oggi poi questa necessità è, come dicevamo, imperiosa. È uno dei caratteri del nostro tempo l’insufficienza delle private iniziative rispetto alla grandiosità e complessità di tutti i problemi che pone la nostra civiltà. E tale insufficienza si manifesta precisa e indiscutibile in materia di esecuzione di piani regolatori, poiché oggi i piani regolatori sono un organismo complesso, nel quale sfociano e chiedono soddisfazione non le sole esigenze della viabilità o del traffico, già di per sé sole enormi e multiformi, ma quelle dell’igiene, quelle del decoro nazionale, quelle dell’arte. È possibile, è fascisticamente possibile che la loro soluzione, totalitaria ed integrale, della quale solo può appagarsi l’anima moderna, debba dipendere dall’esistenza di un preciso interesse del proprietario collimante con quello della collettività?

Evidentemente sarebbe illogico ed assurdo impedire al proprietario di attuare esso stesso le sistemazioni di piano regolatore, per la parte riguardante i suoi immobili, quando egli ne abbia volontà. Per questo molto opportunamente il decreto sul piano regolatore di Roma ha stabilito che l’Amministrazione, prima dl procedere alla sistemazione delle zone laterali ad un’opera pubblica, debba invitare i proprietari a dichiarare se intendano essi stessi provvedere alla demolizione e alla ricostruzione secondo le norme stabilite dal piano regolatore. Ma, una volta offerta agl’interessati la possibilità di trarre dall’opera tutti i vantaggi che ne possono loro derivare, non può né deve ammettersi che il rispetto dei loro particolari interessi si spinga fino al punto di rendere incompleta l’opera pubblica o di ritardarne la esecuzione, quando, attraverso la corresponsione di una giusta indennità, l’esecuzione stessa possa aver luogo senza alcuna diminuzione patrimoniale per i proprietari dei fondi latistanti.

Si espropri, dunque, per zone, quando i privati non possano essi stessi eseguire le sistemazioni: si eviti di tenere in mano ogni momento un avaro compasso che ponga limiti angusti a un’opera cosi significativa come quella dell’esecuzione di un piano regolatore in una qualsiasi delle cento nostre città. Togliere ai comuni tale facoltà significherebbe compromettere fatalmente la sistemazione dei centri urbani secondo le regole moderne del l’igiene e della viabilità, e insieme produrre gravi inconvenienti di carattere estetico, quali indubbiamente si verificherebbero con le deplorevoli esposizioni di aree nude, di muri ciechi, di rottami di demolizioni interrotte, che negli anni decorsi hanno troppo spesso dato a certi quartieri di vari centri urbani un malinconico aspetto di città sottoposta a bombardamento.

Opportunamente integrato con disposizioni analoghe a quelle sancite per Roma, l’istituto dell’espropriazione per zone rappresenterà il mezzo per assicurare il totale adeguamento dei nostri maggiori aggregati edilizi alle necessità della vita moderna, codificando le aspirazioni dottrinali e le esperienze positive della legislazione e della giurisprudenza e riassumendo ed elaborando i dati scientifici: poiché di scienza non meno che di arte si deve parlare quando si tende a distribuire con afflusso regolare ed uniforme nei cento cuori pulsanti delle nostre città il fervido sangue arterioso dell’attività costruttrice e ricostruttrice del Regime: di questo Regime, il quale con la sua attività ha ammonito che gli illustri ruderi e le gloriose costruzioni monumentali del passato, albero genealogico della più antica nobiltà nazionale, debbono, per avere un significato efficace, fiorire di nuovi rigogliosi rami, perpetuarsi in nuove opere vaste, romanamente imperiali, italianamente eterne.

Possiamo, pertanto, concludere che se, anche con l’adozione di cautele intese a tutelare nel miglior modo l’integrità del patrimonio dei privati; l’espropriazione rappresenta pur sempre in molti casi una rinuncia dolorosa per alcuni cittadini, essa deve necessariamente essere ammessa senza limitazioni eccessive, quando si tratti di aumentare il patrimonio di bellezza del nostro paese o, migliorando le condizioni di vita della popolazione, contribuire efficacemente al benessere delle future generazioni.

A quali risultati conduca una seria e ponderata urbanistica, anche quando il terreno non le sia stato interamente sgombrato intorno, è facile vedere in Roma. In un decennio Roma è stata trasformata e rinnovata, e siffatta trasformazione e rinnovazione ci fa antivedere i grandi immancabili progressi del domani. Non rimpiangiamo le vittime immancabili di questo divenire: freniamo le facili lagrime commemorative dinanzi alle stampe del Piranesi e alle mostre retrospettive: la bellezza patetica dei contrasti che esse illuminano, fra la maestà dei ruderi e dei palazzi patrizi e il gregge fosco delle povere case, trovava a quei tempi, con la condizione romantica di Roma, capitale insieme di uno staterello povero per territorio e per popolazione, ma centro universale della Chiesa Cattolica, una armonia che era il segreto del suo fascino profondo. Oggi questa armonia non esisterebbe più e quel contrasto sarebbe sproporzione! Roma è oggi il centro di uno Stato ordinato e forte, è veramente il cuore,di una nazione realisticamente equilibrata in tutte le sue forze, e le nostre città di provincia sono i gangli di un sistema nervoso fremente di vita e ricco di energie. Lasciamo dunque che esse si adeguino con il loro aspetto alla loro nuova condizione, lasciamo che mediante una vasta opera di costruzione e di ricostruzione, saviamente assistita da quell’equilibrio di tradizione e di progresso, che l’urbanistica italiana, appunto perché italiana, non mancherà di trovare, esse possano, secondo la nobile aspirazione dell’antico filosofo, conseguire il bene, e cioè la forza, l’attività, la sanità, la gioia nella suadente canzone delle memorie rinnovate attraverso le magiche forme dell’architettura e dell’arte.

Il tendere energicamente a questo scopo non é certo l’ultimo dei molti e grandi meriti del Regime Fascista!

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