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I confini di Tangentopoli
1 Aprile 2004
L'Italia a sacco, Editori riuniti, Roma 1993
Dal CAPITOLO 6 NUOVA POLITICA E NUOVE REGOLE PER USCIRE DA TANGENTOPOLI Non pretendiamo di aver descritto compiutamente Tangentopoli. Ci stiamo, ancora, troppo dentro, troppo vicino. In qualche modo, ne siamo anche noi cittadini, ne condividiamo gli utili. Non ha tutti i torti Giancarlo Roscioni quando richiama l'attenzione sulla "piccola corruzione diffusa, quella che permette infiniti abusi in tutti i settori della vita amministrativa", e degli italiani denuncia "la mancanza di rispetto per gli altri e l'insensibilità per tutto ciò che è d'interesse collettivo" [1].

Non pretendiamo di aver descritto compiutamente Tangentopoli. Ci stiamo, ancora, troppo dentro, troppo vicino. In qualche modo, ne siamo anche noi cittadini, ne condividiamo gli utili. Non ha tutti i torti Giancarlo Roscioni quando richiama l'attenzione sulla "piccola corruzione diffusa, quella che permette infiniti abusi in tutti i settori della vita amministrativa", e degli italiani denuncia "la mancanza di rispetto per gli altri e l'insensibilità per tutto ciò che è d'interesse collettivo" [1]. Esiste certamente, nei comportamenti collettivi degli italiani, un qualcosa, una propensione alla scelta individualistica, all'arrangiarsi e al fare da sé (in definitiva e al limite, a "fare i furbi" quando questo conviene più di quanto convenga rispettare le regole comuni) che rende lo scandalo di Tangentopoli non tanto lontano dallo "spirito dei luoghi": un evento che può addirittura sollecitare delle ammiccanti comprensioni, se non delle aperte solidarietà. Descrivere compiutamente Tangentopoli nel suo humus storico e sociale comporterebbe perciò estendere e affondare l'analisi ben al di là di quanto i nostri mezzi ci abbiano consentito, invadere altri terreni, coinvolgere altre competenze.

Un fatto resta però indubitabile. Se quelli cui abbiamo accennato sono gli atavici vizi di un'Italietta scaciata e opportunista, sottomessa e cialtrona, debole e arrogante, Tangentopoli non solo ha dato loro piena cittadinanza, ma ne ha promosso l'esaltazione: ha tentato di farli trascendere, da sopportati vizi, a celebrate virtù. I matematici insegnano l'utilità del concetto del limite per comprendere la norma. In questo senso è utile la lettura del libro di Gianfranco Bettin su Pietro Maso, il ragazzo che, con tre compagni, assassinò i genitori per ottenerne subito l'eredità, poiché illustra appunto una manifestazione-limite dell'ideologia che sta alla base di Tangentopoli. Secondo Bettin, il giovane Maso

è l'erede spaventosamente coerente di un sistema che vede nel denaro la radice della stabilità e del benessere, nonchè l'obiettivo e il conforto di ogni fatica. Un sistema in cui il valore di ogni cosa si misura in denaro. Come il lavoro e il patrimonio. Come la "bella vita", che solo il denaro può pagare. Pietro ha condotto alle estreme conseguenze gli insegnamenti ricevuti (...) Ripeteva: tu sei furbo, tu sei bravo, tu ci sai fare meglio di tutti. In un mondo di furbi nessuno ti fregherà mai.

È giusto però non fare d'ogni erba un fascio. È giusto, ed è necessario, distinguere i diversi gradi di responsabilità, ed è giusto non guardare soltanto al marcio, che certamente sembra oggi dominare l'orizzonte.

È giusto allora, in primo luogo, distinguere vizi privati e vizi pubblici per colpir più rudemente questi ultimi. È giusto, insomma, fare della distruzione di Tangentopoli il primo obiettivo di un'azione di risanamento morale: per le ragioni che fin qui sono venute emergendo, nel corso stesso della nostra narrazione, e anche per altre ragioni cui questa riflessione ci conduce. Perché, appunto, non solo guasti e nefandezze, non solo immoralità diffusa e prevaricante individualismo caratterizzano la società italiana. Accanto all'Italia dei furbi e dei furbastri, divenuti pienamente omogenei allo Stato dell'intercessione e dell'intermediazione, della raccomandazione e della regalìa, c'è un'altra Italia che con sommessa dignità si manifesta, e che da quella più appariscente e più forte viene calpestata e offesa.

Anche a proposito di questa Italia (quella in definitiva che plaude e aderisce alle iniziative dei giudici di Mani pulite) vengono in mente episodi recenti. E accanto alle statistiche degli evasori fiscali, vogliamo ricordare le lunghe file dei contribuenti romani che nella canicola ferragostana, due giorni dopo che era stata varata l'imposta straordinaria degli immobili, facevano la fila agli uffici del ministero delle finanze (ma il ministro e il segretario generale, appena promulgata la legge, erano andati in ferie nei mari del Sud, lasciando gli uffici nel caos e i cittadini nell'inutile disagio della gratuita attesa). E vogliamo ricordare le file "autogestite" che quotidianamente si formano negli uffici postali e nelle banche, testimoniando la capacità di assumere atteggiamenti rispettosi dei diritti gli uni degli altri: atteggiamenti che, a differenza che in altri paesi d'Europa, colpiscono nel nostro proprio perché si contrappongono a un'amministrazione, a una burocrazia, a un potere troppo spesso sciatti e ostili, troppo raramente "al servizio" del cittadino.

Il cuore di Tangentopoli

Sebbene i confini di Tangentopoli restino ancora da tracciare con una più precisa descrizione, il suo cuore, il suo "centro direzionale", crediamo comunque di averlo individuato. Esso sta nella politica. Più precisamente, nell'aver ridotto la politica a gioco per il potere, e aver reso il potere fine a se stesso: nell'aver ridotto il potere a unica finalità, rovesciandone e negandone così il valore di strumento per un fine d'interesse collettivo.

Non a caso, benché la componente statisticamente più consistente degli indagati dall'inchiesta Mani pulite appartenga all'area del Psi, e benché il craxismo costituisca in qualche modo l'ideologia e la professione di fede di Tangentopoli, la radice politica da cui la malavita politico-affaristica è germinata è quella del doroteismo: tipica figura politica (più e prima ancora che "corrente") di una Democrazia cristiana che veniva perdendo ogni sia pur discutibile finalità generale. Si può anzi sostenere che proprio il contagio operato con l'estensione del doroteismo alle altre formazioni politiche (in primo luogo al Psi, ma anche al Pci, entrato con il consociativismo nell'anticamera del potere e con le cooperative nella "cupola" degli appalti) abbia costituito la precisa matrice politica di Tangentopoli. Sebbene non si possa sottovalutare il deciso "salto di qualità" (se così possiamo chiamarlo) avvenuto nel passaggio dal doroteismo di marca democristiana a quello di stampo craxiano. Mentre il primo conservava le apparenze della rispettabilità e si nascondeva dietro il manto dell'ipocrisia (ma l'ipocrisia, diceva Chateaubriand, è in fin dei conti "l'omaggio che il vizio rende alla virtù"), il doroteismo degli anni 80 esibisce invece, presentandole come virtù, i suoi vizi di furbesca arroganza, di rampante arrivismo, di potervo sprezzo per le regole comuni.

Sembra comunque che la caratterizzazione "a dominanza socialista", che ha indubbiamente contrassegnato il primo anno dell'indagine Mani pulite, sia destinata a stemperarsi a mano a mano che l'indagine si estende: che dalla periferia e dalle amministrazioni locali si sposta verso le grandi centrali del potere pubblico (i ministeri, l'Anas, le Ferrovie, l'Iri, le banche, la Federconsorzi), da Milano verso Roma; dai luoghi insomma nei quali il Psi di Craxi si era ritagliato una cospicua fetta di potere (soprattutto nei settori delle opere pubbliche e dell'urbanistica), a quelli rimasti saldamente nelle mani della democrazia cristiana.

Solo "vittime" i funzionari del capitale?

Socialisti, democristiani, membri degli altri partiti di governo, e anche dell'opposizione "consociata": è solo dei politici la responsabilità? Non ne hanno gli imprenditori, gli amministratori delegati e i presidenti delle società, i "funzionari del capitale" pubblico, privato e cooperativo che hanno "dato" mentre gli altri (i politici, i pubblici amministratori) "prendevano"? Certo, tra le responsabilità primeggiano quelle degli eletti e dei politici: chiamati a garantire il bene comune, di questa funzione si sono fatti scudo e spada per accrescere la loro potenza (o la loro ricchezza) privata. E seppure abbiano concusso non per se, ma per la loro formazione politica, minore sarebbe forse la loro colpa sul piano della morale personale, maggiore certamente su quello della morale civile e politica.

Ciò detto, non ci sembra però di poter dire che, nel corso degli anni 80, la malversazione tangentizia abbia dovuto esser imposta, col ferro e col fuoco, da un manipolo di facinorosi politicanti alla plebe disarmata e riottosa del "mondo dell'impresa", incontrando resistenze cocciute ed estese, o quanto meno tenaci e generalizzate perplessità. Ci sembra invece che i meccanismi di Tangentopoli siano stati costruiti con il consenso, la partecipazione e spesso anche sulla base dell'esplicita richiesta delle categorie economiche interessate.

Cesare Romiti, nel parlare agli allievi della scuola militare della Nunziatella, sulla collina napoletana di Pizzofalcone, ha perso una occasione di verità il 17 ottobre 1992. L'amministratore delegato della Fiat ha commentato così le notizie che da qualche settimana tenevano l'apertura dell'informazione stampata e di quella teletrasmessa: "Occorre ristabilire il rispetto dei fondamentali principi morali all'interno dell'amministrazione dello stato e nei rapporti con la società civile, occorre restituire funzionalità e autorità alle nostre istituzioni". Parole sacrosante. Peccato che abbia dimenticato di aggiungere: occorre restituire alle imprese l'imprenditorialità e la concorrenzialità perdute.

Riformare gli appalti per ritornare alla concorrenza

"Tecnicamente" (anche questo ci sembra d'averlo, se non rigorosamente dimostrato, almeno ampiamente argomentato e illustrato), Tangentopoli è stata costruita mediante la surrettizia trasformazione delle regole che determinano il governo del territorio. In particolare, mediante la sostituzione della discrezionalità (sia essa la deroga alla procedura urbanistica o la cordata di imprese per l'acquisizione concordata delle commesse) alla regola generale (sia essa costituita dalla pianificazione urbanistica o dalla concorrenza economica), la sostituzione dell'emergenza alla strategia, dell'interesse immediato (e forte) all'interesse di prospettiva (e debole). È stata costruita utilizzando e inventando strumenti idonei, più di quelli tradizionali, all'estendersi del malaffare politico-affaristico.

È su due fronti che allora è necessario intervenire. Da un lato, per ricostruire un sistema di regole e di istituti per il governo del territorio. Un sistema di regole che, per quanto innovato rispetto a quello distrutto, non potrà certo servire a cancellare la possibilità del manifestarsi di episodi di corruzione e di malversazione (solo degli sprovveduti o degli ingenui potrebbero sperarlo), ma dovrà almeno renderne più difficile e rischioso il percorso, più limitata l'azione, più tempestiva la denuncia e la repressione. Dall'altro lato, per restituire alla politica, e ai partiti, la capacità di interpretare, conflittualmente e dialetticamente, le aspirazioni più "alte", gli interessi più generali, le speranze più universali, e di guidare il corpo sociale e le sue istituzioni alla graduale realizzazione di definiti e coerenti progetti politici.

Il dibattito sulle misure concrete da prendere per correggere gli "strumenti tecnici" di Tangentopoli si è concentrato, quasi esclusivamente, sul tema degli appalti: come, con quali procedure e garanzie, con quali rinnovati istituti si debba provvedere alla scelta dei soggetti e alla formulazione dei contratti relativi alla realizzazione delle opere e degli interventi il cui committente è lo stato, in tutte le sue articolazioni centrali e locali. La questione è indubbiamente rilevante.

Sono chiare alcune delle condizioni nuove che occorre determinare: un impiego corretto (e perciò limitato a casi specifici e speciali, accuratamente circoscritti e garantiti) dell'istituto della concessione; il ripristino pieno della concorrenza, nei confronti di qualsiasi categoria di soggetti economici e quali che siano gli istituti concorsuali e contrattuali impiegati; il superamento della revisione prezzi anche mediante l'impiego di meccanismi assicurativi; la distinzione tra progetto (e cioé formulazione della domanda chiaramente e compiutamente definita in tutte le sue caratteristiche e prestazioni) e sua esecuzione. Non si tratta di fare la rivoluzione. Si tratta semplicemente di "reinventare il capitalismo": di ripristinare le regole della concorrenza come metodo per scegliere la più conveniente combinazione dei fattori produttivi. Beninteso, più conveniente non per il brigante appostato sul ponte o sul valico, ma per il committente, cioé per il pubblico.

I disegni di legge su cui il Parlamento sta discutendo sembrano muoversi, sia pure contraddittoriamente, in questa direzione. Sarebbe un passo nella direzione giusta, che dimostrerebbe che da Tangentopoli le forze politiche possono, se lo vogliono, uscire. Ma un passo non basta. Non basta stabilire e applicare nuove norme per gli appalti e ripristinare la concorrenza. Non basta fare pulizia nel settore delle costruzioni e in quello dei servizi pubblici, accrescere la trasparenza, combattere la pratica delle tangenti, bustarelle, dazioni e così via. Non basta ripristinare la concorrenzialità tra le imprese. Occorre anche altro. Occorre in primo luogo, un impegno politico straordinario per ricostituire le regole del governo del territorio: per ripristinare e rinnovare ciò che nei terribili anni 80 è stato distrutto da una lobby estesa e articolata, avvolta da una rete di complicità che ha coinvolto pressoché tutti.

La pianificazione territoriale e urbanistica come metodo generale

"Serve un Piano" era il titolo di un articolo di Fulvia Bandoli che, sull'Unità del 24 giugno 1992, analizzava Tangentopoli per ricercarne le cause. Bandoli individuava la spiegazione del "perché la pratica delle tangenti si è tanto estesa e consolidata e sul perché ha toccato anche noi" anche e soprattutto nell'"abbattimento dei principi di programmazione e delle politiche di piano", abbattimento "che era la precondizione per far passare la filosofia della deregulation e una forte centralizzazione dei poteri e delle risorse". Da questa analisi Bandoli traeva le conseguenze indicando, come linea di soluzione, "una sorta di rinascita della politica di piano, di principi certi di programmazione territoriale e una radicale battaglia contro qualsiasi tipo di legislazione straordinaria e di emergenza", e l'impegno a "ricominciare a produrre idee e progetti organici sul regime degli immobili".

La soluzione giusta di un problema è in effetti già implicita nella sua analisi. E se l'ambiente propizio al maturare di Tangentopoli e al suo rapido diffondersi è stato artificialmente costruito mediante la delegittimazione dell'urbanistica, lo svuotamento della pianificazione e la demolizione delle leggi della politica fondiaria (e speriamo che il lettore che ci ha seguito fin qui se ne sia convinto), allora è evidente il che fare.

Occorre in primo luogo che la pianificazione territoriale e urbana diventi il metodo generale che la pubblica amministrazione adotta, a tutti i livelli (comunale, provinciale e metropolitano, regionale, nazionale) per decidere quantità, qualità e localizzazione degli interventi sul territorio, secondo procedure trasparenti. Lo richiede la domanda di efficacia e di efficienza, che promana da una società nella quale l'esigenza della parsimonia nell'impiego delle risorse si manifesta sempre più come una "virtù cardinale" (attuale come non mai è la verità programmatica dell'austerità, intuita dal Berlinguer del 1977), e lo richiede la domanda di trasparenza, base necessaria per una partecipazione responsabile, e quindi per la stessa democrazia.

Che cosa significa infatti pianificazione territoriale e urbanistica? Significa che le decisioni che comportano trasformazioni fisiche o funzionali del territorio (siano esse singole opere di notevoli dimensioni, come una strada o un porto o una fabbrica, o siano invece una pluralità di piccoli interventi, come una serie di case e casette o una rete di canalizzazioni, o siano cambiamenti delle utilizzazioni che comportino comunque differenze nel funzionamento dell'organismo urbano o territoriale) devono essere rispondenti a un disegno d'insieme che ne garantisca la coerenza nello spazio (così che, ad esempio, se in un luogo ho deciso di realizzare una riserva naturale, ai suoi margini non lascio espandere una zona industriale, e se in un altro luogo ho deciso di trasformare una caserma dismessa un una serie di uffici ho fatto in modo che il servizio dei trasporti sia in grado di garantirne l'accessibilità), e devono realizzarsi in modo che in ogni fase della vita sociale sia garantita una coerenza nel tempo (talché, ad esempio, le infrastrutture che consentono la mobilità delle persone e delle cose non vengano realizzate dopo la costruzione delle case e delle fabbriche e degli uffici, i servizi non vengano dopo le persone e così via).

Significa, ancora, non ridurre il governo del territorio alla redazione di un piano, concepito come un obbligo di legge da evadere una tantum, interamente affidato a professionisti esterni all'amministrazione pubblica locale (debitamente lottizzati, oppure scelti perchè vedettes celebrate dai mass media), disegnato come l'assetto futuribile d'una improbabile città ideale, scardinato poi mediante gli emendamenti consiliari alle norme, le varianti e variantine magari ad personam, le deroghe e le interpretazioni di comodo (in una parola, con una gestione casuale e corriva), e mai verificato nei suoi effetti. Significa assumere invece, come metodo del governo del territorio, la pianificazione intesa come attività sistematica dell'amministrazione, nella quale ciclicamente si susseguano le fasi dell'analisi e della conoscenza della realtà, della formazione delle scelte coerentemente tradotte in elaborati (grafici e normativi) precisamente riferiti al territorio, dell'attuazione e gestione di tali scelte nell'attività ordinaria dell'aministrazione (nei bilanci cone nelle politiche di settore), e infine della verifica dell'efficacia e del monitoraggio degli effetti.

Naturalmente, le scelte della pianificazione devono essere coerenti con una strategia politica, in funzione di un determinato progetto politico, riferite a un definito sistema di interessi. Devono perciò essere assunte da chi rappresenta la collettività nel suo insieme, cioé - nel nostro sistema costituzionale - dagli enti elettivi. E poiché le scelte non possono essere assunte tutte al livello più vicino al cittadino, al livello del comune (non è il comune che può decidere, ad esempio, la localizzazione di un nodo del sistema dei trasporti o di una università, e se ha una dimensione modesta neppure quella di una scuola media o di un ospedale, né l'organizzazione di un sistema efficiente di trasporti pubblici), ecco che si pone il problema che le scelte sul territorio assunte dai diversi livelli di governo (il comune, la provincia, la regione, lo stato) siano coerenti tra loro, e che il processo decisionale sia costruito in modo che nessuno distrugga o contraddica ciò che l'altro ha deciso, ma tutti partecipino alle decisioni secondo un sistema di regole che stabilisca con chiarezza a chi tocca, caso per caso, la responsabilità ultima della scelta.

La questione del regime degli immobili

Le scelte che la collettività compie sul territorio, e gli investimenti che essa opera per rendere il territorio utilizzabile, provocano consistenti effetti economici: è un fatto noto ma è opportuno ricordarlo, sia pure con la massima schematicità. Alcuni effetti agiscono nei confronti del profitto, soprattutto nel senso di ridurre o aumentare i costi di produzione (il sistema dei trasporti, a sua volta funzione del sistema delle localizzazioni insediative, rende più o meno costoso l'approvvigionamento e la distribuzione, ecc.ecc.). Altri agiscono nei confronti della rendita, nel senso di accrescere (o ridurre) il valore di un immobile (area o edificio che sia): un'area ben servita dal sistema dei trasporti, collocata in una zona dotata di servizi, asciutta e con un buon sottosuolo, non soggetta a rischi di inquinamento o inondazione, vale più di una che non abbia questi requisiti, o ne abbia solo alcuni; un'area o un complesso edilizio che possano essere trasformati per una utilizzazione più redditizia di quella attuale (edilizia residenziale invece di coltivazione agraria, o uffici invece di fabbriche) vale di più di una che debba conservare l'attuale utilizzazione, o addirittura debba "regredire" verso una meno conveniente.

In tutti i casi cui abbiamo ora accennato il proprietario dell'azienda o dell'immobile percepisce un utile prodotto da un lavoro della collettività. L'utile percepito dal possessore di profitto - questo è il punto che va sottolineato - è però ben diverso da quello del percettore di rendita. La differenza sostanziale può essere enunciata come segue. Per il percettore di profitto l'utile consiste in una riduzione percentuale dei costi che sopporterebbe, o che concretamente sopporta, per una cattiva organizzazione della città e del territorio; si tratta comunque di percentuali, più o meno modeste, del profitto complessivo prodotto dall'attività economica; e si tratta di un utile che corrisponde a una funzione sociale che il proprietario dell'azienda, in quanto ne sia anche il gestore, esercita. Per il percettore di rendita, invece, è il lavoro stesso della collettività (le decisioni e gli investimenti) che determina il valore ( almeno la sua parte di gran lunga più consistente): se la collettività non avesse deciso, con la pianificazione urbanistica, che quell'area può essere edificata, e non avesse realizzato la viabilità d'accesso, l'impianto fognario, le scuole e gli altri servizi che gli abitanti di quelle case utilizzeranno e così via, quel terreno avrebbe un valore determinato solo dalla sua utilizzazione agricola [2].

Poiché le cose stanno così, è evidente che le amministrazioni comunali, e chi con loro collabora nella redazione dei piani urbanistici (cioé di quegli atti che concretamente determinano la maggiore o minore trasformabilità di un'area o di un edificio), da un lato sono soggette a pressioni fortissime, dall'altro sono inevitabilmente nella condizione di premiare alcuni (nel senso di consentir loro di moltiplicare per dieci o per cento il valore del loro immobile), e di punire altri (cui ciò non viene consentito). Ed è altrettanto evidente che una simile situazione preoccupa fortemente anche dal punto di vista dell'equità, talché la Corte costituzionale è reiteratamente intervenuta colpendo sempre le disposizioni normative che determinavano sperequazioni troppo forti tra soggetti inizialmente nelle stesse condizioni.

Come superare questa situazione? Dopo trent'anni di dibattito e di elaborazione non è davvero difficile dirlo. L'indennità espropriativa dovrebbe essere riferita all'uso legittimo del bene da espropriare e agli investimenti effettuati su di esso dal proprietario, depurata quindi da ogni elemento derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività (quali le capacità edificatorie, derivanti dalla pianificazione). Per evitare troppo vistose sperequazioni, occorrerebbe contestualmente che ai proprietari non espropriati, nel momento dell'edificazione (o trasformazione) o della realizzazione economica del bene edificato (o trasformato), fosse sottratta, sotto forma di contributo di concessione o di imposta, la quota del valore finale derivante dalle scelte della proprietà, e cioé esattamente la parte corrispondente alla differenza tra il valore finale del bene e l'indennità di espropriazione [3].

Un simile meccanismo sostanzialmente coincide con lo spostamento, tendenzialmente integrale, della rendita immobiliare dal privato al pubblico, e - di conseguenza - con un forte disincentivo negli investimenti immobiliari. Coincide, insomma, con uno spostamento deciso degli impieghi delle risorse dalla rendita immobiliare (e dalle rendite finanziarie ad essa collegate) al profitto e al salario. Data l'entità quantitativa e il peso sociale e politico della rendita immobiliare nel nostro paese (la cui arretratezza è misurata anche da questo), è fortemente improbabile che una simile proposta possa ottenere i necessari consensi. Ciò non tanto per presunti effetti punitivi sul risparmio privato (sarebbe del tutto ragionevole riconoscere il prezzo pagato per un immobile da espropriare, sostituendo all'indennità espropriativa il valore documentato nel più recente atto pubblico, debitamente rivalutato), quanto perché una proposta legislativa di questa portata non potrebbe non far parte di un coraggioso progetto di trasformazione delle basi stesse su cui si è conformata la nostra economia e, con essa, la stessa società italiana. Basi, come si è detto, ben più intrise di rendite, sprechi, impieghi improduttivi, privilegi grandi e piccoli, che permeate di spirito imprenditoriale e degli altri "valori del capitalismo", di cui pure così spesso, particolarmente negli ultimi anni, si infarciscono i proclami e i discorsi.

Ripristinare la dialettica per ritornare alla politica

Più d'un commentatore lo ha rilevato. Tangentopoli ha potuto svilupparsi perché il nostro sistema politico è stato per troppi anni "bloccato": perché gli accordi di Yalta, e la supina accettazione, in Italia, delle loro conseguenze da parte delle forze omogenee al blocco a direzione statunitense, rendevano impossibile il tradursi dell'opposizione politica in opposizione di governo, e rendevano insomma del tutto astratta l'ipotesi di una alternativa di governo. Fino agli anni 70 l'opposizione politica era tuttavia alimentata da una decisa e robusta opposizione sociale, che pretendeva l'esercizio di una qualche incisivo controllo sul governo. Ciò non impediva che si manifestassero - lo abbiamo ricordato nelle prime pagine di questo libro - fenomeni anche vistosi di corruzione. Essi erano però ben lontani dall'assumere l'aspetto sistematico che le indagini giudiziarie, e le confessioni dei responsabili, hanno rivelato. La svolta degli anni 80, il tramutarsi della corruzione da eccezione a sistema, da fenomeno trasgressivo a prassi di regime, è stata resa possibile dal tendenziale annullarsi di ogni significativa e robusta opposizione politica e sociale. La sconfitta della classe operaia sulla scala mobile (oggi, abbiamo appreso, aiutata anche dai fondi occulti raccolti da Craxi con le tangenti) e il generalizzarsi del consociativismo sono stati i momenti cardini di un simile passaggio.

Uscire da Tangentopoli significa allora oggi ripristinare una dialettica sociale e politica. Significa agire nella società, per promuovere in essa una vera rivoluzione culturale . E significa rinnovare la politica: non solo e non tanto nel senso di "cambiare le facce", quanto in un senso ben più complesso e preciso. Significa infatti uscire dal consociativismo in modo strutturale e definitivo. Non con atti di buona volontà politica, e neppure con la decisione congressuale di un partito, ma con regole nuove sul funzionamento del rapporto tra cittadino ed eletto, tra partiti e istituzioni, che renda non solo necessario, ma inevitabile, costitutivamente obbligato, e perciò anche praticamente non eludibile, il porsi delle forze politiche, e delle realtà sociali e ideali che esse rappresentano, come le matrici di schieramenti alternativi ciascuno dei quali sia disponibile e capace di assicurare un governo del paese oppure, nel caso che sia perdente al confronto democratico, di esercitare una effettiva e tenace opposizione allo schieramento che l'elettorato ha preferito: naturalmente nella comune tensione a ricostruire, e poi difendere, uno "Stato delle regole". Si tratta insomma di assumere l'obiettivo sintetizzato da Gianfranco Pasquino nel felice slogan "restituire lo scettro al principe" [4]: in altre parole, quello di riconsegnare al popolo sovrano la facoltà di decidere, tutt'assieme, quale schieramento debba governare ognuna delle diverse istituzioni, sulla base di quale impegnativa e vincolante proposta programmatica, e attraverso quali persone.

È un obiettivo necessario, ma neanch'esso è sufficiente. Non bastano infatti le regole per l'alternativa: ne serve anche il contenuto. Ciò che serve, allora, è una società nella quale sia ripristinata la dialettica tra interessi, aspirazioni, esigenze differenti: in una parola, una società conflittuale. Non è questa, del resto, un'esigenza che discende direttamente dall'analisi che fin qui abbiamo condotta? Il grande privilegio che gli anni 80 hanno conferito alla rendita immobiliare, il ruolo di guida dei processi di urbanizzazione che essa ha assunto, il nuovo intreccio tra rendita immobiliare, rendita finanziaria e profitto che si è venuto consolidando, non possono certamente essere modificati senza far leva su profondi conflitti sociali ed economici, senza far scendere in campo gli interessi contrapposti, senza insomma che si determini una reale, e trasparente, dialettica sociale.

I riferimenti concreti, i "soggetti" di un'azione di sinistra non sono certo individuabili oggi con la semplicità del passato (una "semplicità", non dimentichiamola, che era nutrita da un secolo di riflessione e di prassi) né sono meccanicamente riconducibili alle "classi lavoratrici". Oggi, occorre far riferimento a categorie, ceti, bisogni, interessi meno direttamente riconducibili al processo produttivo e alle classi sociali, più complessi e complicati: o almeno, che così ancora appaiono ai nostri occhi. Sono interessi tra i quali comunque acquistano peso via via maggiore quelli del cittadino in quanto tale, dell'utente del territorio e della città. Quel cittadino che, ancor più dopo i terribili anni 80, e a causa di ciò che nel loro corso è accaduto(e in larga misura continua ad accadere), è colpito e minacciato - nelle degradate città e nei devastati territori in cui abita - nelle sue più elementari esigenze di vita: la salute, l'impiego del tempo, la possibilità di "essere sociale" (di incontrare, di conoscere, di scambiare), quella di lasciare ai propri discendenti un ambiente dove la vita sia ancora possibile, la storia non sia ancora cancellata, e l'ordine, la funzionalità e la bellezza non siano ancora un'utopia.

[1] Gian Carlo Roscioni, "Chi ha detto che siamo brava gente ?", Repubblica, 24 giugno 1992, p.28.

[2] Per avere un'idea dell'entità del valore derivante dalle decisioni della collettività vogliamo riferire un esempio recente, di cui si é occupata la magistratura. Le aree incluse nella variante Peep '91 di Firenze furono acquistate dalle cooperative a 20 mila lire a metro quadrato, e rivendute poche settimane dopo a 200 mila lire, senza che nessun investimento fosse intervenuto per modificarne la situazione oggettiva.

[3] La proposta di legge più definita e convincente lungo queste linee é quella redatta da Luigi Scano, riprendendo e sviluppando le elaborazioni dell'Inu dei primi anni 80 (dovute allo stesso Scano e a Guido Cervati), e presentata al convegno del Pds citato alla nota 112.

[4] Gianfranco Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Laterza 1985.

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