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Perché Berlinguer (per me)
27 Marzo 2004
Enrico Berlinguer
A Giovanni Berlinguer, candidato nel 2001 alla segreteria dei Democratici di sinistra, mandai allora questa lettera di auguri. La pubblico quasi integralmente come apertura di questo dossier su Enrico Berlinguer, nella cui politica mi sono quasi integralmente riconosciuto.

Caro Giovanni,

[…].

Mi sono avvicinato alla sinistra comunista 45 anni fa: quando molti intellettuali se ne allontanavano. Gli eventi del 1956 mi sollecitarono a una riflessione profonda, dialettica, nella quale compresi l’inevitabile necessità delle durezze della storia. La mia amicizia con Franco Rodano e i suoi amici (da Filippo Sacconi a Tonino Tatò, da Claudio Napoleoni a Giuliana Gioggi, da Mario Melloni a Ugo Baduel, da Vittorio Tranquilli a Giancarlo Paietta, da Marisa Rodano a Giuseppe Chiarante) mi aiutarono a comprendere quanto fosse stretto il legame tra il dramma e la speranza. Compresi allora perché la prima realizzazione statuale del movimento proletario avesse radici così deboli, e perché la prima rottura rivoluzionaria pretendesse (una volta scongiurata, a Stalingrado, la tragedia dell’annientamento finale dell’umanità) uno sviluppo e un salto di qualità nell’Occidente europeo: compresi allora, di conseguenza, quanto fossero grandi le responsabilità della sinistra europea e, in essa, dei comunisti italiani.

Misurai allora, con i miei occhi, quando il comunismo italiano – pur incapace di svolgere pienamente, da solo, un ruolo internazionale all’altezza delle necessità del mondo – avesse contribuito e contribuisse a rendere la società italiana più giusta, più moderna, più ricca, più democratica. Quanto esso (per la presenza di figure come Palmiro Togliatti, e per la sintonia di civiltà che lo legava a figure delle altre sponde) contribuisse a radicare nel paese il senso dello stato, dell’interesse comune, della democrazia. E anche per questa convinzione entrai nel Partito comunista, prima come “indipendente” nelle sue liste poi, scaduto il mandato, come iscritto.

Ho sempre lavorato nel Partito come un membro di un collettivo: un gregario, anzi. Mettendo il mio specifico sapere e saper fare a disposizione di un disegno che condividevo. Solo in casi eccezionali mi è toccato svolgere una funzione di direzione politica: all’inizio degli anni Novanta. In quegli anni ho condiviso la svolta che ci ha portato ad abbandonare le antiche insegne: era una svolta inevitabile, poiché gli errori e i ritardi della sinistra europea avevano permesso che il lascito della Rivoluzione d’ottobre, confinato “in un paese solo”, si disgregasse e l’edificio dell’URSS e del comunismo internazionale tragicamente crollasse.

A mano a mano che la nuova formazione politica si sviluppava mi rendevo conto che il crollo di Berlino, mettendo la parola fine alle speranze nate con la Rivoluzione d’ottobre, rivelava un crollo inaspettato nella struttura stessa della sinistra italiana. Anche noi eravamo stati contagiati dalle malattie che avevamo criticato prima nella DC, poi nel PSI. Una parte molto larga del nostro quadro dalla DC aveva assunto quello che definirei il doroteismo: il privilegio del successo rispetto alla verità, del potere rispetto alla finalità, delle facilità dell’oggi rispetto alle difficoltà del futuro. Del PSI ci ha contagiato (certo marginalmente) la spregiudicatezza nell’asservire a fini di parte interessi comuni, e quella particolare forma di corruzione che in quegli anni esplose.

Furono queste le ragioni sostanziali (in aggiunta al concludersi della mia attività di amministratore locale, e alle particolari inettitudini che dimostrava la sinistra veneziana) che, qualche anno fa, mi hanno indotto a non rinnovare la tessera.

Scusami questa premessa certamente troppo lunga. Ma è la prima occasione che ho di ripensare a un percorso. Essa chiarisce però – mi sembra – le ragioni per cui, come ti dicevo, sono felice della tua candidatura. Mi sembra che essa significhi che è possibile la ripresa di alcune delle speranze smarrite.

La speranza di un ruolo internazionale della sinistra italiana, che si faccia carico in modo costruttivo, “politico”, delle tragedie del nuovo mondo che stiamo scoprendo tra noi e nei continenti (quello in bilico tra distruzione e disperazione), e delle potenzialità del vecchio mondo (un mondo che, con tutti i suoi errori e limiti, abbiamo contribuito a costruire). La speranza di una politica che torni a parlare alle cittadine e ai cittadini, ma a partire dagli ideali, dai principi, dai futuri da costruire insieme, e non dalla vellicazione degli interessi spiccioli. La speranza di un partito che riacquisti le doti della coerenza dei programmi e delle azioni, del rispetto degli altri, del disinteresse personale, e perda la smisurata fiducia nell’immagine che buca lo schermo e nelle parole d’ordine accattivanti (“modernizzazione” è una di queste) ma prive di senso. La speranza di una formazione nella quale la politica e gli altri saperi sappiano dialogare, rispettarsi, alimentarsi a vicenda, senza che la scienza strumentalizzi la politica né ne venga strumentalizzata.

E’ inutile che ti dica quali sono le tue qualità che mi sembrano renderti idoneo al ruolo che in cuor mio ti assegno. Voglio dirti però che il tuo cognome è tra queste, perché è simbolo di una continuità sostanziale con stagioni altissime della nostra storia. […]

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