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Sergio Rizzi
La partecipazione in urbanistica e architettura
20 Marzo 2004
Recensioni e segnalazioni
Sergio Rizzi recensisce sulla rivista Ananke il volume: Lodovico Meneghetti, La partecipazione in urbanistica e architettura, Scritti e interviste, Unicopli, Milano 2003

Lodovico Meneghetti aveva sorpreso molti col suo Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, uscito a fine 2000 presso il medesimo editore. “Un libro che non poteva che giungere a conclusione di un luminoso magistero… Il volume… ricollega in una sorta di romanzo di formazione memorie di viaggio vividamente custodite… Allo stesso tempo fuoriesce dal dato autobiografico per dare vita a un discorso sull’arte del costruire che vuole essere anche un ponte fra le generazioni”. Così nelle prime righe la recensione di Giancarlo Consonni, rara per acutezza, apparsa sul numero 23, dicembre 2002, di “Quaderni di Architettura”. Ora con questa raccolta l’autore ricostruisce quel ponte con mezzi diversi distendendo su di esso un altro tipo di memorie recepibili come un nuovo romanzo: spezzato in parti apparentemente autonome che in realtà, mentre presentano ognuna racconti collegati, si sovrappongono ampiamente nei contenuti e nel senso. L’arco di tempo investito dai quarantasette pezzi (a cui si aggiungono, oltre alla Nota introduttiva, le quattro Premesse alle parti) e dalle opere rappresentate nelle 16 tavole è di mezzo secolo. La prima data, il 1953, coincide con l’ illustrazione della prime opere, l’ultima con un capitolo estratto da un saggio del 2002. Giovani, coetanei e persone di età intermedie potranno ritrovare fatti, notizie, argomentazioni corrispondenti a uno o più periodi personalmente vissuti, oppure scoprire qualche tratto delle “strade” (così l’autore denomina le parti) non conosciuto, o infine sfruttare l’occasione di provare per intero uno dei quattro percorsi o tutti.

La parte relativa alla Facoltà di architettura di Milano, benché non si ponga lo scopo di ricostruire una vera storia a partire dagli “anni difficili” delle lotte studentesche, offre tuttavia un quadro organico attraverso sezioni temporali successive che rappresentano bene il tormentato cammino da un allora a un oggi decisamente differente ma che non può considerarsi privo dei retaggi del passato. È naturalmente il punto di vista dell’autore che bisogna accettare: la determinazione di operare in qualsiasi frangente, anche durante la più dura repressione politica, in favore di un nuovo progetto di architettura, mentre preme anche il dovere di partecipare alla “politica” avendo in mente il destino dei giovani. L’esempio personale testimoniato dagli scritti è anche una pratica insieme alla forte minoranza con lui partecipante “al compito indubitabile della nostra scuola: formare una figura professionale denominata architetto che sia anche una persona intera, per cultura e dote morale” (nella Premessa). Quando la scuola finalmente può offrire con pienezza una “didattica aperta al territorio”, Meneghetti apre la progettazione verso l’unico modo capace di salvare il territorio milanese: la realizzazione di un modello policentrico di metropoli che comprenda la miriadi di comuni circostanti la città centrale.

Le vicende narrate, scrive Gianni Ottolini al termine della sua presentazione, “sono vicende mai banali o ‘finite’, ma questioni aperte, persistenti, attuali. Ogni studente o collega che le leggerà sentirà la pulsione di verità e di altruismo, e l’incanto per la buona architettura (e la buona musica) che sono sottesi al suo insegnamento”.

Critica dell’urbanistica e dell’architettura permette di ritrovare la figura di architetto e urbanista dedita alla lotta culturale e politica per l’affermazione dei nuovi principi sociali e disciplinari fondativi del progetto per la città, la casa, il territorio. La polemica, sempre motivata, mai impiegata come evasione dalla comprensione degli avvenimenti e dal confronto delle idee, viene sospinta dalle difficoltà in cui versano l’architettura e l’urbanistica lungo i trentacinque anni che separano l’articolo del 1964 sulla tradita riforma urbanistica dall’esauriente intervista del 1999 in “Costruire in laterizio”. In questa Meneghetti rende conto, con una precisione e un sentimento d’altri tempi, del suo rapporto con alcune opere, con i colleghi dello studio a tre, con quelli della generazione precedente, nonché della ragione del suo ingresso nell’università. Il racconto di come si era conformata l’architettura di una delle case di mattoni più note, poi, è insegnamento di come si può parlare di un proprio lavoro senza alcun compiacimento ma con la sicurezza dovuta al risultato ottenuto.

La polemica punge al di là dell’attesa quando diventa persino sconcertante tanto è anticonformista nei confronti di posizioni ambigue della sinistra. Valga l’esempio dell’articolo Equo iniquo canone (1979), scritto per “l’Unità” ma escluso. Una dimostrazione stringata, veramente scientifica sul piano dell’analisi sociale, economica, urbana ed edilizia dell’ingiustizia che sarebbe calata sulle classi a basso reddito e, al contrario, della regalìa ai proprietari; non solo, ma anche una chiara previsione dell’altrettanto iniquo disordine cui si sarebbe assoggettato il mercato dell’acquisto/vendita e dell’affitto. Il “pessimismo della ragione” trascorre lungo tutti i testi ma “l’ottimismo della volontà” si apre quando preme l’esigenza di saldare critica e progetto, di unire la disciplina alla questione sociale, di rivendicare l’unicità di architettura e urbanistica. “Il richiamo all’unità portato a gran voce da Lodovico Meneghetti in un’epoca in cui già si avvistavano le divisioni fra le discipline… è stato per me, come per molti altri, fondamentale o meglio fondativo”, scrive Antonio Monestiroli nella sua presentazione. Sotto questo aspetto risalta la lunga intervista Ricominciare l’urbanistica, del 1980.

Certo gli avvenimenti più recenti sembrano la tomba di ogni speranza circa la funzione sociale e culturale dell’architettura e dell’urbanistica. Meneghetti, scrivendo la Premessa alla parte, lancia i suoi ultimi strali: “L’urbanistica del progetto leale, fiducioso e di lotta contro i devastatori del territorio è morta”. Secondo certi colleghi oggi l’urbanistica la fanno logicamente le imprese, la fa “un raccomandabile ‘gioco delle forze’”, la fa il mercato; come a Milano: vedi il documento programmatico, vedi il caso Bicocca. “Intanto è morta anche l’architettura, già separata dall’urbanistica e, per questo, indebolita anziché rafforzata come si era potuto credere. È morta quale mestiere civile comunitario anch’esso di lotta… verso l’individualismo che ignora il contesto sociale-spaziale e pretende solo l’esaltazione del sé anche quando il risultato appare… irrimediabile errore e inopinabile bruttezza. Un esempio attuale? Ecco il gherkin di Norman Foster, il troppo famoso padrone di cento architetti-robot al suo servizio.” Sappiamo che non è il solo.

Nella terza parte, Segni di architetti, Meneghetti si rivolge soprattutto ai giovani. “Gli aspetti particolari relativi ai tre maestri stranieri” (Berlage, Taut, Le Corbusier) trattati con grande chiarezza pedagogica in due articoli di fondo dei “Quaderni del Dipartimento di progettazione” e in un articolo sul “Manifesto” possono essere interpretati come messaggi morali, perché la grandezza dei personaggi in causa insita in certe opere e specifiche azioni rivolte al bene di una comunità è essa segno di moralità. L’omaggio a De Carli e a Bottoni poi, egli lo scrive con tale commossa ma provata sincerità e sicura memoria descrittiva e critica, da ricacciare lontano ogni rischio di retorica. Anche in questo caso la Premessa, che aggiunge utili informazioni circa le proprie ascendenze culturali più ampie rispetto ai “segni” o addirittura ad alcuni di questi estranee, non rinuncia all’allarme critico verso la sparizione, nell’attuale architettura, della memoria storica e della vocazione sociale, oltre che della sensibilità al contesto. L’autore si oppone alla falsa originalità di troppi architetti, alla presunzione di autonomia di un’architettura tutta tecnologica: “non esiste architettura degna del nome senza sentimento di appartenenza”.

Fra gli scritti dell’ultima parte, Milano e Milanese, quelli dedicati alla città, a partire da Milano uno spazio in sfacelo del 1984, potrebbero essere datati oggi. Lodovico Meneghetti, con una verve polemica giustificata da una straordinaria conoscenza dei fatti, anche i più minuti, e della posizione ‘culturale’ di amministratori ed ‘esperti’, inoltre da una incredibile capacità di utilizzare dati statistici incontestabili per demolire convinzioni sbagliate e scelte assurde, ci mostra che la Milano odierna, alla quale l’autore riserva un pesante giudizio del tutto meritato, non è che l’erede in coma di quella d’allora e che le colpe per aver segnato un triste destino sono ripartibili fra amministratori incapaci e opportunisti, nuova media-borghesia commerciale esosa, politici si sa quali, modisti, architetti e urbanisti ciechi o compartecipi. I pochi veri oppositori non potevano bastare. Meneghetti tuttavia non rinuncia a disegnare una trincea di resistenza mediante possibili interventi, come prospettati durante l’ insegnamento, nella metropoli estesa, nella nuova periferia esterna al comune di Milano: sia di risanamento ambientale mediante una politica di vastissime piantumazioni, sia di circoscrizione degli insediamenti ancora recepiti come poli entro la spaziatura di un paesaggio agrario che rifiuti la resa ai vandalici invasori.

Che dire, infine, del piccolo promemoria costituito dall’inserto illustrativo di alcune delle opere progettate dal terzetto Gregotti-Meneghetti-Stoppino, prima novarese poi milanese? Opere più volte pubblicate e oggetto di importanti valutazioni critiche? Nulla, in questa sede, da me che, nonostante il lungo tempo trascorso, mi sento ancora pervaso dallo spirito speciale e dall’entusiasmo per l’architettura e l’urbanistica della “scuola di Novara” che ho potuto frequentare, se non rimpiangere la perdita di quei rapporti pedagogici, professionali, umani soprattutto.

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