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Corrado Stajano
I demoni del premier
18 Marzo 2004
I tempi del cavalier B.
”È possibile un qualsiasi genere di dialogo con chi nega i princìpi dell’esistere civile e politico e considera la Costituzione una carta da stracciare?”. Questa la domanda posta nell’editoriale de l’Unità del 13 febbraio 2004.

Il verbo demonizzare è di gran moda, si sa. Diventerà il sigillo linguistico dell’era berlusconiana anche se è nato, sembra, nel 1982. La parola, in questi vent’anni, è stata negletta. Il Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia la ignora e così il Devoto-Oli. Più comprensivi lo Zingarelli, il Garzanti e soprattutto, il Sabatini-Coletti: «Far apparire qualcuno o qualcosa moralmente riprovevole; attribuire a persone o cose volontà o qualità perverse».

L’accusa dei fedeli berlusconiani a coloro che considerano nemici, non avversari politici come dovrebbe essere, è naturalmente quella di venire demonizzati, accusati di essere dei diavoli, Barbariccia, Alichino e Calcabrina, Cagnazzo e Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto e Graffiacane, Farfarello e Rubicante pazzo, la decina dantesca. Poveri angeli caduti, il Bondi, il Ferrara, il Cicchitto, il Baget Bozzo, lo Schifani, così parsimoniosi nel loro dialogare, così morbidi nella scelta delle parole, così flautati nel ribadire i voleri del Capo, celestiali pianissimi da non aver alcun bisogno di abbassare i toni.

È il capo stesso, non poche volte, il primattore.

Dar dell’assassino, autore di «azioni criminose» (Biagi, Santoro), lanciare anatemi, segnare a dito i magistrati di Milano («figure da ricordare con orrore»), annotare sul libro nero chi ha opinioni differenti, chi non si inchina alla santa gerarchia, definire un giornale come l’Unità «tendenzialmente omicida», rientra davvero nella normalità «liberale»? Chi demonizza?

Non è possibile attaccare volgarmente un giurista come Gustavo Zagrebelsky appena eletto presidente della Corte Costituzionale, definito un «girotondino» dalla Lega e un nemico da Bondi, «un’anomalia», mancante di neutralità, uno che dovrebbe imparare da Piero Calamandrei che cosa è l’indipendenza. Lasci stare Calamandrei che proverebbe vergogna della citazione, Bondi, e legga almeno qualche pagina di Zagrebelsky “Il Crucifige! e la democrazia”; lo scritto alto, di religiosità profonda che introduce la nuova edizione delle “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana” o il finale del “Diritto mite”: «C’è oggi certamente una grande responsabilità dei giudici nella vita del diritto, sconosciuta negli ordinamenti dello Stato di diritto legislativo. Ma i giudici non sono i padroni del diritto nello stesso senso in cui il legislatore lo era nel secolo scorso. Essi sono più propriamente i garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, cioè della necessaria, mite coesistenza di legge, diritti e giustizia. Potremmo anzi dire conclusivamente che tra Stato costituzionale e qualunque «padrone del diritto» c’è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti».

C’è chi sostiene che non giova all’opposizione lo scontro frontale. Che giova soltanto a Berlusconi essere definito il male assoluto. Che cosa vuol dire? Che bisogna usare le vecchie tattiche ambigue capaci di far apparire al confronto i dc dorotei dei giacobini, le stesse usate dal Cavaliere nella sua «verifica» di governo? Prender le legnate in testa e starsene tranquilli? Diventare moderati al posto di coloro che si definiscono tali, ma in ogni questione si comportano come estremisti dissennati? Non è stato fruttuoso, in passato.

Certo, sarebbe più vantaggiosa, per l’intero Paese, una politica fondata su un rapporto leale tra maggioranza e opposizione. Ma è possibile un qualsiasi genere di dialogo con chi nega i princìpi dell’esistere civile e politico e considera la Costituzione una carta da stracciare? Per questo è necessario ribattere colpo su colpo, sottolineare gli errori, le menzogne, l’incompetenza di governanti che con le loro leggi codine, aziendali, a uso privato, incuranti del bene collettivo, stanno disfacendo dei capisaldi dello Stato sociale e dello Stato di diritto. Non sarà facile, dopo, rimettere a posto leggi improvvide che riguardano una società incrinata: scuola, giustizia, televisione pubblica, beni culturali, sanità. E non è casuale che il disagio e la protesta siano oggi così estesi, dai professori ai medici ai piloti, dai pensionati alle maestre d’asilo ai veterinari agli operai di Terni.

Di nuovo sul verbo demonizzare. Domenica scorsa il segretario dell’Associazione nazionale magistrati Carlo Fucci ha suscitato scandalo ricordando, a proposito della riforma della magistratura, il decreto Oviglio, il guardasigilli del governo Mussolini appena al potere che vietava l’associazionismo giudiziario, prevedeva l’abolizione del sistema elettivo dei componenti del Consiglio superiore della magistratura e la soppressione del carattere giurisdizionale della Corte di disciplina. Può darsi che il riferimento alla «deriva istituzionale del 1923» in quel momento del Congresso fosse inopportuno. Ma le reazioni infuocate non potevano non far pensare alla coda di paglia ministeriale. Gli intoccabili. Non era preferibile, anziché usar l’insulto nei confronti di quella toga che tre l’altro rossa non è, spiegare che esistono differenze tra il regio decreto n. 2786 del 30 dicembre 1923 e la legge ora in discussione e che quindi la citazione era sbagliata? O non era proprio possibile farlo perché le similitudini scottano?

Sul decreto Oviglio, sulla sua sostanza, nessuno, tra vociferanti diatribe, ha chiesto alcunché, nessuno ha voluto sapere. Il quotidiano «tendenzialmente omicida» è stato l’unico a spiegarlo, mercoledì scorso, con un articolo di Paolo Piacenza.

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