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Riforme per il regime e disaffezione dei cittadini
12 Aprile 2010
Articoli del 2010
Due aspetti strettamente intrecciati della crisi italiana della democrazia, negli articoli di Stefano Rodotà e di Ilvo Diamanti (e una vignetta di Altan), la Repubblica, 12 aprile 2010

Una sfida sul destino della democrazia

Stefano Rodotà

È mai possibile che si accetti senza reagire una politica che si manifesta con la distorsione dei fatti, l´aggressione alle istituzioni, l´esibizione di un potere ispirato da una logica autoritaria? Questi sono i temi nitidamente posti da Eugenio Scalfari, e conviene seguire la strada da lui indicata tornando su alcune delle cose dette sabato dal presidente del Consiglio ad una platea di imprenditori. E tuttavia, prima di seguire Berlusconi lungo l´abituale suo itinerario di aggressioni e vanterie, bisogna sottolineare la novità rappresentata dai tre fatti gravissimi narrati da Scalfari, rivelatori non tanto di una inammissibile doppiezza, ma di un sistematico mentire al presidente della Repubblica, che configura un caso clamoroso di slealtà costituzionale. Mentre Giorgio Napolitano si adopera per creare un clima propizio per una riforma rispettosa della Costituzione, Silvio Berlusconi tiene comportamenti pubblici e privati che mettono in discussione la funzione esercitata dal presidente e gli lancia una sfida che può sfociare in un gravissimo conflitto al vertice delle istituzioni.

A Parma il presidente del Consiglio si è descritto come prigioniero di lacci e lacciuoli che gli impediscono un´azione efficace, come se non avesse una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana e come se non avesse nei fatti mostrato che, quando le convenienze lo spingono, è in grado di far approvare rapidamente qualsiasi provvedimento. Ha imputato l´origine della crescita del debito pubblico ai "governi del compromesso storico", mentre proprio gli imprenditori dovrebbero sapere che quella vicenda comincia con il governo Craxi, un politico dal quale l´attuale presidente del Consiglio non era poi così lontano. Ha detto meraviglie di riforme che si sa bene che non saranno in grado di produrre i miracoli che ad esse vengono associate. Ma soprattutto ha descritto la Presidenza della Repubblica come un luogo che interferisce impropriamente nell´azione di governo, controllando «minuziosamente anche gli aggettivi» dei provvedimenti. E per l´ennesima volta ha definito la Corte costituzionale un "organo politico", che sta lì per smantellare la legislazione che non piace ai pubblici ministeri e ai giudici di Magistratura democratica. Un attacco frontale è stato così portato alle due istituzioni che in questo periodo hanno garantito la legalità costituzionale.

Quest´insieme di falsificazioni è il frutto di una strategia deliberata, basata sulla ripetizione degli stessi concetti e delle stesse parole, ispirata all´antica regola "calunniate, calunniate, qualcosa resterà". In questo modo si è già creato un perverso senso comune, al quale si fa appello nel momento in cui si deve raccogliere consenso. E ora, gonfiate le vele dal vento elettorale, si pensa di poter portare tutto all´incasso. Che cosa si sta facendo per contrastare questa che non è soltanto una strategia comunicativa, ma una sempre più pesante strategia politica?

L´obiettivo di Berlusconi è chiaro e ormai esplicitamente dichiarato. Spazzar via tutte le garanzie e i controlli che "disturbano il manovratore", concentrare il potere nelle mani di una sola persona, invocando quel che accade in altri paesi europei, ma ignorando del tutto i contrappesi che lì esistono. Così, quello che con approssimazione viene chiamato semipresidenzialismo si presenta come concentrazione di potere nelle mani di una sola persona. Non a caso si rifiuta ogni modifica della legge elettorale, che si è rivelata un docile strumento per avere parlamentari scelti dall´alto, vanificando proprio quella sovranità dei cittadini alla quale Berlusconi strumentalmente si richiama quando vuole avere le mani libere da qualsiasi controllo. Si scoprono le carte a proposito della riforma della magistratura. Viene annunciata una antidemocratica riforma elettorale del Csm. La separazione delle carriere dovrebbe portare alla creazione di due consigli superiori, uno per i magistrati e l´altro per i pubblici ministeri, quest´ultimo presieduto dal ministro della Giustizia. Dalla proclamazione della volontà di cancellare la politicità della pubblica accusa si passerebbe così ad un controllo politico, anzi governativo, dei pubblici ministeri con l´evidente possibilità di distogliere il loro sguardo da indagini che potrebbero riguardare chi è vicino alla maggioranza e di indirizzare la loro azione verso chi si muova in modo sgradito al potere.

A Berlusconi la democrazia dà fastidio, e non a caso annuncia un plebiscito. Non vuole una riforma, vuole un referendum sulla "sua" riforma. Un referendum che inevitabilmente spaccherebbe il paese, e farebbe percepire la nuova architettura costituzionale come il progetto di una parte, nella quale gli altri non potrebbero riconoscersi. Dalle riforme condivise si passerebbe alle riforme "divisive".

Avendo deciso di imboccare questa strada, Berlusconi ha fatto una mossa che, per chi conosce la sua attenzione per il sistema della comunicazione, era prevedibile. Si è materializzato su Facebook. Da tempo, e non solo in Italia, si sottolinea che Internet non è di per sé uno strumento di democrazia e che, anzi, proprio l´insieme delle nuove tecnologie può dare sostegno al crescente populismo.

Si torna così all´interrogativo iniziale. Come contrastare questa pericolosa deriva? Contare solo sulla dialettica interna alle forze politiche, sperare nel dissenso dei finiani, cercare pontieri tra maggioranza e opposizione perché la minacciata eversione costituzionale venga ricondotta nel più ragionevole alveo della "buona manutenzione costituzionale"? Guardiamo pure in questa direzione, anche se la sconsolata ammissione del pontiere per eccellenza, Gianni Letta, riferita da Eugenio Scalfari, non autorizza alcun ottimismo.

Il compito dell´opposizione si è fatto più difficile, perché non basta contrapporre una bozza Violante ad una bozza Calderoli. Bisogna contrastare Berlusconi sul terreno che lui stesso ha scelto, quello della mobilitazione dell´opinione pubblica che dovrebbe sostenere l´impresa di riforma. Ma bisogna fare un passo oltre la registrazione di questa difficoltà, mostrando a tutti che cosa sia effettivamente diventata la questione della riforma costituzionale: una sfida sul destino della democrazia italiana.

Se così stanno le cose, vi è una responsabilità più ampia di quella che riguarda partiti e gruppi di opposizione. Vi è una responsabilità collettiva legata ad una cittadinanza attiva, alla necessità che tutti prendano la parola. La difesa della democrazia non è stata mai affidata a maggioranze o minoranze "silenziose". Proprio perché le tecnologie hanno fatto diventare "continua" la democrazia, continua dev´essere pure l´azione dei cittadini. E oggi il silenzio si rompe in molti modi, da quelli tradizionali a quelli che si affidano alla faccia democratica delle tecnologie, né plebiscitaria né populista. Di tutto questo bisogna parlare, per non lasciare solo il Presidente della Repubblica nella difesa della Costituzione, per scongiurare un cambiamento di regime, per non rassegnarsi al destino di spettatori. Esattamente quello che il Cavaliere vuole.

Fenomenologia dell´elettore scettico

di Ilvo Diamanti

Alle regionali 15 milioni di elettori non hanno votato. È l´astensione più elevata del dopoguerra, considerando tutte le elezioni di rilievo nazionale dal ´46 ad oggi (referendum esclusi). Ma il fenomeno ha subito una accelerazione significativa nella seconda Repubblica. Se consideriamo le 13 regioni dove si è votato due settimane fa, la partecipazione è scesa dall´87% nel 1994 all´81% nel 2008 – alle elezioni politiche (3 punti in meno rispetto al 2006). Dal 75% nel 1994 al 70 % nel 2009 – alle europee (5 punti in meno rispetto al 2004). Infine, dall´82% nel 1995 al 64% del 2010 alle regionali (8 punti in meno rispetto al 2005). Insomma, a seconda delle elezioni, tra 2 e oltre 3 (anzi, quasi 4) persone su 10, ormai, non votano. E il dato si allarga nelle elezioni amministrative dei comuni oltre 15 mila abitanti, dove, in caso di ballottaggio, tra il primo e il secondo turno la percentuale di votanti scende ulteriormente.

Da ciò la tentazione di evocare un "partito dell´astensione", considerando il non-voto come un voto. Il primo in Italia, viste le dimensioni. Per usare una formula nota (di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino): il "voto di chi non vota". Tuttavia, è difficile ricondurre quelli-che-non-votano a "un" partito, visto che sommano componenti molto diverse e contrastanti. Vi si incontrano: (a) quelli che non votano per forza maggiore; (b) le persone marginali – apatiche e disinteressate; (c) quelli che esprimono protesta contro il sistema; (d) quelli che non si sentono rappresentati; (e) quelli che, al contrario, si fidano, chiunque vinca; (f) quelli convinti che il loro voto non conti; (g) e quelli che, invece, intendono usare il voto come "ammonimento" ai partiti – soprattutto di governo. Sfruttando, a questo fine, le elezioni amministrative o europee.

Insomma, l´area dell´astensione si è dilatata, ma ha assunto, al tempo stesso, significati molto diversi. Tanto che la quota degli astenuti "per forza maggiore" – un tempo prevalente – oggi appare ridotta. Mentre è cresciuta quella degli "intermittenti" (come li definisce Paolo Segatti). Che scelgono "se" votare a seconda delle occasioni. Non è, ovviamente, un fenomeno solo italiano. Anzi. L´Italia è tra i paesi europei dove l´affluenza elettorale resta più elevata. Tuttavia, nel nostro paese, questa tendenza, negli ultimi anni, è cresciuta in modo rapido e impetuoso. Per alcune ragioni, in parte specifiche.

a) Il rovesciamento e il rimescolamento continuo del sistema partitico. Il che ha reso sempre più difficile non tanto identificarsi, ma almeno "affezionarsi" a un soggetto politico, visto il turbinio di sigle, aggregazioni e leader. Pensiamo al Pd, al Pdl. Alla galassia della Sinistra. Unico partito ad aver mantenuto lo stesso marchio dai tempi della prima Repubblica: la Lega. Non a caso, il prodotto più riconoscibile sul mercato elettorale.

b) Il cambiamento e la diversità delle leggi elettorali hanno disorientato l´elettore. La logica maggioritaria del voto utile ha, inoltre, spinto a votare per un partito o un candidato competitivo. Quindi, non sempre – e sempre meno – per quello più vicino.

c) La personalizzazione dei partiti, il declino dell´identità a vantaggio della fiducia, della partecipazione a favore delle tecniche di marketing. Hanno reso i "prodotti" del mercato elettorale volatili e deperibili.

d) Il mutamento della società, del contesto culturale e del territorio. Sottolineato dal profondo mutamento territoriale dell´astensione. Se consideriamo le 20 province dove alle regionali recenti il fenomeno è cresciuto maggiormente rispetto alle europee del 2009, solo 2 sono del Sud (Crotone e Avellino). Le altre sono del Centro-nord e comprendono realtà a forte tradizione democristiana (Sondrio) ma soprattutto di sinistra (Livorno, Rimini, Pesaro Urbino, Siena). Zone ad alta partecipazione, anche per questo colpite – più delle altre – dall´astensione.

Non è più corretto, quindi, considerare il "voto" come la "regola", trattando il "non-voto" come un comportamento "deviante". Quasi fossimo ancora al tempo delle fedeltà di partito. Perché quel tempo è finito. E quelle fedeltà si sono erose profondamente. Se utilizziamo una scala che misura l´orientamento degli elettori verso i partiti (sondaggio di Demos, febbraio 2009, campione nazionale rappresentativo, 1000 casi), la quota di coloro che esprimono vicinanza – e quindi appartenenza esclusiva – verso un solo partito appare molto ridotta. Intorno al 10% del totale, mentre il 20% si dice lontano da tutti. La maggioranza, invece, è costituita da elettori "tiepidi". Incerti fra diversi partiti. Rispetto ai quali si dicono – più che vicini – "non lontani". Incerti anche "se" votare. Si tratta, peraltro, degli elettori politicamente più interessati e informati.

Da ciò il declino del senso di appartenenza; la disponibilità a cambiare voto e partito. Anche senza salti di schieramento, visto che alcune fratture restano. Una, soprattutto: scavata da Berlusconi.

Tuttavia, in caso di elezioni amministrative, anche queste fratture scompaiono. E nello stesso giorno, gli stessi elettori, in elezioni diverse, possono decidere di votare per candidati di schieramenti opposti. A Venezia, a Lecco, come in numerosi altri comuni: per la Lega alle regionali e, al contempo, per un sindaco del Pd. Non era così nella prima Repubblica, quando tutti – o quasi – votavano sempre e allo stesso modo, in tutte le elezioni.

Oggi, invece, un´ampia quota di elettori decide di volta in volta. Per chi e "se" votare. Ciò costituisce un problema soprattutto per i partiti maggiori, frutto di aggregazioni complesse. Con un´identità opaca. Poco presenti nella società. Il Pd. E a maggior ragione il Pdl: il più colpito alle ultime elezioni. Ma nessuno ne è immune. Perché nessuno dispone di un elettorato fedele, come i partiti di massa della prima Repubblica. Neppure la Lega. Che dal 1992 ad oggi ha visto oscillare le sue percentuali di voto – oltre che il numero di elettori. Dal 10% al 4%. Per poi tornare al 10%. Non è stata la fedeltà a favorirne la risalita degli ultimi anni. Semmai, la capacità della Lega di intercettare domande locali, rivendicazioni territoriali, sentimenti di incertezza. Oltre all´insoddisfazione verso gli altri partiti. Ma ora che governa a Roma, in Veneto e nel Piemonte sfruttare i vantaggi di chi fa la maggioranza e l´opposizione, al tempo stesso: le riuscirà più difficile.

Il tempo dell´elettore fedele è finito. Siamo nell´era dell´elettore scettico. Non è privo di valori, non è senza preferenze politiche. Ma ha bisogno di buone ragioni per votare un partito o un candidato. E prima ancora: per votare.

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