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Il Salario
9 Agosto 2008
Capitalismo oggi
Tre articoli (Luciano Gallino, Giorgio Ruffolo, Aldo Nove) e una definizione (J.K.Galbraith) da conservare. Dedicato a chi dice che la lotta di classe è finita. La Repubblica, 7 marzo 2008

Se è difficile arrivare a fine mese

di Luciano Gallino

Il salario rappresenta il valore dei mezzi di sussistenza necessari al lavoratore per vivere, lavorare e procreare. Così lo intendeva verso il 1672 William Petty, di formazione medico, riqualificatosi come originale esperto di "aritmetica politica". Non era un concetto elaborato a tavolino. Petty era stato inviato dall’Inghilterra in Irlanda con il compito di stabilire quanto valessero la terra e il lavoro degli isolani, allo scopo di sottoporli ad una tassazione accurata. Per farlo occorreva fondarsi su misure obbiettive. I mezzi di sussistenza del lavoratore avevano tutti un prezzo; quindi si prestavano egregiamente alla bisogna di stabilire quanto valesse il lavoro.

Per quanto annosa, la nozione del salario come valore dei mezzi di sussistenza del lavoratore rimane realistica anche ai nostri giorni. Le famiglie che si lamentano di non arrivare a fine mese, visto il poco salario che entra in casa, sembrano avere in mente proprio tale nozione. Esse si chiedono anzitutto come mai, un tempo, il salario era sufficiente per vivere serenamente, lavorare e fare figli; mentre adesso quasi non basta più nemmeno per lo stretto necessario. Si chiedono anche se e quando il salario ritornerà ad essere abbastanza elevato da poter coprire, oltre ai costi della mera sussistenza, anche qualche modesto piacere della vita. Tipo comprare le rose, oltre al pane.

Nella stessa esperienza quotidiana delle famiglie lavoratrici è dunque ben presente l’idea che esistono tre gradini o livelli distinti di salario. Quello che non basta nemmeno per vivere, pur lavorando; il salario che permette invece di vivere e riprodursi, ma senza lasciare margini per alcun altro beneficio; infine quello che permette un tenore di vita appropriato al grado di sviluppo civile del paese in cui si abita. Le domande che le famiglie si fanno in merito sia alle cause che hanno permesso ai loro progenitori ed a loro stesse di collocarsi a un determinato livello, sia a quelle che spingeranno i figli ad occuparne uno che speravano più alto del loro, ma temono potrebbe risultare più basso, sono in fondo le stesse domande che gli studiosi di economia si sono posti da secoli. Così come rimangono valide, alla radice, le risposte che essi hanno formulato.

Alcune di esse possono leggersi nell’opera d’un filosofo scozzese, Adam Smith, apparsa un secolo dopo il soggiorno irlandese di Petty. Le sue Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) possono leggersi al tempo stesso come ricerche sulle cause della povertà e del benessere dei lavoratori, in quanto provocano il passaggio di tutti o parte di questi, all’insù o all’ingiù, da un livello all’altro di salario. Se i lavoratori che offrono la loro opera sono a lungo più numerosi di quelli che i padroni (master) son disposti a remunerare, i salari scendono «al più basso livello compatibile con un’esistenza semplicemente umana». Questa pressione verso il basso è accresciuta dal fatto che «i padroni sono sempre e ovunque uniti in una specie di coalizione tacita, ma costante e uniforme, avente il fine di non fare innalzare i salari del lavoro al disopra del loro livello attuale».

La coalizione naturale dei padroni (i proprietari di terra o di capitale, ma anche operai resisi indipendenti) per impedire l’elevamento dei salari può essere infranta sia dalla scarsezza di braccia, sia dal fatto che una volta provveduto all’acquisto dei materiali per la produzione, e al proprio sostentamento, molti di essi tenderanno a impiegare l’eccedenza per assumere altri lavoratori «allo scopo di trarre un profitto dal loro lavoro». Quando si verificano tali condizioni, i salari salgono verso il terzo livello, quello dove alla sopravvivenza e alla riproduzione si aggiunge qualche "comodo". Ed è giusto, nota Smith, che i lavoratori e gli operai i quali formano la gran maggioranza di ogni società, e «nutrono, vestono e pongono al riparo l’intero corpo sociale, debbano avere una quota del prodotto del loro proprio lavoro che li metta in grado di essere essi stessi discretamente ben nutriti, vestiti e alloggiati».

Questo terzo livello del salario, il livello di un certo benessere, ricompare in Marx come l’elemento storico o sociale del valore della forza-lavoro, l’altro essendo unicamente fisico. Quest’ultimo vuol dire quel che già diceva Petty: «per perpetuare la propria esistenza fisica», la classe operaia «deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e la sua riproduzione». Al tempo stesso essa richiede «il soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli esseri umani vivono e sono stati educati»; il cui insieme Marx definisce, usando termini singolarmente moderni, il tenore di vita tradizionale di ogni paese.

L’evoluzione dell’economia e l’indagine delle scienze sociali hanno così prefigurato ciò che sta accadendo oggi alla scala mondiale dei salari. Su una forza lavoro globale stimata dall’Oil in 2,8 miliardi di persone, circa un miliardo non ricava dalla fatica quotidiana nemmeno i mezzi di sussistenza necessari per sopravvivere a un livello minimo di umanità. Poco meno d’un miliardo e mezzo è rappresentato dai nuovi lavoratori globali, che in India e in Cina, in Brasile, Russia, Indonesia e decine di paesi minori stanno raggiungendo un livello salariale che arriva a coprire appena i costi di riproduzione dell’uomo. Come li definiva François Perroux, grande economista del Novecento, condannato all’oblio per le sue vedute eterodosse circa i compiti e le responsabilità delle scienze economiche nel mondo moderno. Il primo dei costi cui si riferiva sono quelli che impediscono agli esseri umani di morire, a cominciare dal lavoro. Infine, in cima alla scala dei salari, si collocano forse mezzo miliardo di lavoratori che nel corso di alcuni decenni sono stati – per usare ancora le parole di Smith - discretamente ben nutriti, vestiti e alloggiati. Oltre a godere delle varie forme di salario differito che sono l’assistenza sanitaria gratuita, la scuola pubblica per i figli, e pensioni dignitose.

Sul loro complessivo livello di salario, al gradino più alto della scala, premono ora il miliardo e mezzo di persone che stanno sul gradino intermedio, e il miliardo che sta sul gradino inferiore. Un’enorme concorrenza di braccia, e di cervelli, che consente alla attuale coalizione globale dei master di offrire salari diretti e differiti sempre più bassi. Il termine master non è più traducibile propriamente con "padroni", perché molti di essi, in realtà, diversamente da quelli di cui trattava Smith, non sono in senso stretto dei proprietari. Sono manager di grandi imprese e gestori d’ogni genere di enti finanziari che gestiscono nel mondo, in totale autonomia, ricavandone compensi inverosimili, decine di trilioni di euro di soldi degli altri. Gran parte dei quali sono costituiti dai risparmi e dai contributi previdenziali dei lavoratori già titolari d’un ragionevole benessere, e dei loro genitori, via via accumulatisi negli scorsi decenni. I lavoratori ad alto salario, comparativamente parlando, vedono così ergersi dinanzi a loro, e sul futuro dei figli, quasi fosse uno spettro ostile, la stessa massa di salario non speso su cui contavano per un destino migliore della semplice riproduzione di sé stessi.

SALARIO

Di John Kenneth Galbraith

Dal momento che i lavoratori venivano raccolti nelle fabbriche, diveniva altamente rilevante la questione di cosa ne determinasse la paga. Assumendo il capitalista il controllo della produzione, sorgeva la questione della sua remunerazione, di come questa venisse determinata e giustificata. Quando il fittavolo sostituì il mezzadro o il servo, la rendita diventò una faccenda importante. E si giunse a considerare i prezzi come legati da un palese rapporto con tutte queste componenti. Adam Smith diede alla scienza economica la sua struttura moderna... In linea generale, considerò i salari come il costo di portare all’esistenza l’operaio in quanto operaio e di mantenerlo nel suo lavoro. Questa idea, ossia la teoria dei salari di sussistenza, sarebbe in seguito stata trasformata da David Ricardo nella Legge bronzea dei salari, la quale vuole che il salario pagato alle classi lavoratrici si collochi al livello minimo compatibile con la loro sopravvivenza.

Quel mondo capitalista da cui è nato il salariato

di Giorgio Ruffolo

Salario era la razione di sale corrisposta ai legionari al tempo dei Romani. E Salaria era la via lungo la quale si trasportava il sale dalla Sabina a Roma. Essa incrociava vicino alla foce del Tevere la via Campana che collegava le genti etrusche con quelle greche, costituendo quel centro di traffici che divenne Roma. Del salario si parla però pochissimo nell’antichità. Le mansioni affidate oggi ai lavoratori manuali erano imposte agli schiavi e le attività libere erano svolte dalla famiglia, soprattutto dalle donne (filatura, tessitura eccetera). Non si parlava di salario perché non c’era una classe di salariati. Inoltre, il lavoro fisico e materiale era altamente disprezzato. Poteva essere molto apprezzato l’artigianato e l’attività intellettuale (poeti, traduttori) nonché quella ludica (giocolieri danzatrici, cantori): ma solo nell’ambito di relazioni individuali, non di un "mercato". I salariati sono una invenzione del capitalismo all’inizio della modernità. Si scopre che, anziché comprare e vendere uomini e donne, facendoli lavorare o usandone gratuitamente, ma anche accollandosi tutti i costi della loro, per quanto grama, esistenza, era molto più conveniente comprare la loro forza lavoro, pagandola il meno possibile e vendendo sul mercato il loro prodotto. È alla fine del Medioevo che nasce così il "mercato del lavoro", anche grazie a una rarefazione dell’offerta di lavoro provocata dalla peste.

Ma per vere e proprie teorie del salario bisogna aspettare gli economisti classici: Smith Malthus e Ricardo soprattutto. Le teorie classiche sul salario sono comprese in quella branca dell’economia politica che si occupa della distribuzione del reddito. Si tratta di spiegare il ruolo economico delle tre principali classi sociali: proprietari terrieri, imprenditori capitalisti, lavoratori e la natura dei loro redditi: rendita profitto e salario. La teoria classica parte dunque da una visione molto concreta della società e della sua divisione in classi. La versione più pertinente della teoria classica è quella che considera la rendita come una specie di tassa pagata ai proprietari per l’uso delle loro terre, legata alla loro fertilità; il salario come una remunerazione legata alle esigenze vitali elementari; e il profitto come il reddito dell’imprenditore che residua dopo aver pagato rendite e salari. Si può dire che essa riflette "brutalmente" i rapporti di forza tra le tre classi: proprietari (in parte aristocratici) imprenditori (borghesi) e lavoratori (proletari).

Ci sono altre versioni, anche in Smith e in Ricardo, della teoria classica, per qualche aspetto anticipatrici delle successive teorie neoclassiche; ma questo è il suo più caratteristico approccio. Se si può parlare delle simpatie degli economisti classici, non c’è dubbio che, nell’insieme, esse erano rivolte ai capitalisti imprenditori, con atteggiamenti compassionevoli nei riguardi dei proletari, e malcelato disprezzo per gli aristocratici proprietari. Non vi è traccia di riferimenti al concetto di "sfruttamento". L’aspetto normativo della teoria è esplicitamente conclamato: è la richiesta di una politica della più ampia libertà degli scambi che lasci ai capitalisti l’iniziativa delle loro imprese e al mercato la determinazione dei prezzi, senza intrusioni politiche e amministrative e con la sola garanzia della maggiore possibile concorrenza (liberismo). Concorrenza nella formazione dei prezzi e concorrenza nella determinazione dei salari, affidata alla "libera" contrattazione tra imprenditori e lavoratori.

Se c’è una forza attrattiva che influisce oggettivamente sulla determinazione del salario è quella del "valore lavoro" (la quantità di lavoro incorporata nella prestazione dei lavoratori). È proprio da questo concetto "ricardiano" che parte Carlo Marx per il suo "grande assalto", come lo chiama Galbraith, alla teoria classica, non tanto nelle espressioni dei suoi fondatori, ma nei riguardi di quei loro esegeti che definisce "economisti volgari" per le loro scoperte tendenze apologetiche nei riguardi delle nuove classi dominanti. Il nucleo forte dell’attacco è la teoria dello sfruttamento. Il salario è mantenuto, più o meno, al livello del valore-lavoro, grazie alla formazione di un’armata di riserva di disoccupati che preme attraverso la concorrenza tra i lavoratori. E il capitalista intasca tutta la differenza tra il prezzo del prodotto, venduto al suo valore nel mercato dei prodotti e il prezzo del lavoro, comprato al suo valore nel mercato del lavoro. Notare che Marx, diversamente da Proudhon non accusa i capitalisti di alcun "furto" (sottrazione di valore). Essi comprano forza lavoro al suo valore e vendono prodotti al loro valore. La differenza è data dal fatto che i lavoratori, una volta ingaggiati, lavorano per una durata superiore a quella che sarebbe necessaria a pagare il loro valore: un pluslavoro che genera sul mercato un plusvalore, che è l’essenza del profitto. Questo è l’"onesto" gioco di prestigio che si chiama "sfruttamento" e che genera un conflitto insanabile tra capitalisti e proletari.

Di tutt’altra natura è la spiegazione del salario offerta, nell’ambito di una teoria della distribuzione del reddito radicalmente diversa dalla teoria classica, dalla cosiddetta teoria (in realtà un complesso di teorie) neoclassica, fiorita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, soprattutto in Austria e in Inghilterra. Il colpo di genio consiste qui nel rovesciamento della prospettiva epistemologica. Si parte non più da una visione storica oggettiva delle classi sociali, ma da assiomi psicologici soggettivi del comportamento individuale. E si rappresentano non più le forme concrete di appropriazione del reddito di quelle classi, in quella situazione storica, ma le forme astratte e astoriche di una distribuzione del reddito che si riferisce non a soggetti sociali concreti (lavoratori, capitalisti, eccetera) ma a "fattori produttivi" astratti (capitale, lavoro, eccetera). Si verifica quella rappresentazione distorta della realtà in base alla quale, come dice Maurice Dobb, «menti incorporee si confrontano con oggetti fantomatici di scelta».

La "rivoluzione keynesiana" ha smontato questa rappresentazione dimostrando come la spontanea dinamica del mercato, a seguito di propensioni diverse al risparmio e agli investimenti, proprie di soggetti diversi, possa condurre a livelli stabili di disoccupazione. In tale caso solo un intervento dello Stato attraverso politiche macroeconomiche, prevalentemente fiscali, può ristabilire l’equilibrio stimolando una crescita della domanda. La teoria keynesiana rifiuta sia l’automatismo mercatistico dell’equilibrio generale neoclassico, sia il catastrofismo palingenetico della teoria marxista, e assegna un compito riformistico equilibratore allo Stato, che incontra le esigenze di benessere collettivo sostenute dalla sinistra socialdemocratica, preservando la logica essenziale del mercato e la sopravvivenza del capitalismo, malgré lui. È questa la stagione del liberalsocialismo. Intanto, grazie all’aumento generale della produttività e al crescente potere dei sindacati, il salario si è elevato ben al di sopra della soglia della sopravvivenza e ha trovato, nel clima riformistico del secondo dopoguerra, un nuovo aggancio al saggio di aumento della produttività, nell’ambito di una politica dei redditi. Ma alla fine degli anni Sessanta l’egemonia keynesiana entrava a sua volta in crisi. Non si può negare che parte di questa crisi sia riconducibile a irrigidimenti salariali provocati dal potere conquistato dai sindacati nel mercato del lavoro, come pure all’eccessiva interferenza delle amministrazioni pubbliche nella sfera economica. La successiva globalizzazione dei capitali e finanziarizzazione della grande impresa va interpretata almeno in parte come una controffensiva capitalistica su larga scala. Sta di fatto che gli anni Settanta e Ottanta segnano il ritorno di un neoliberismo monetarista che pretende di riconsegnare il mercato del lavoro, e quindi il salario, alla "libera" contrattazione su base individuale e cioè, in pratica al gioco dei rapporti di forza originari tra capitale e lavoro.

La pretesa non ha successo che in parte; ma il "combinato disposto" globalizzazione-finanziarizzazione determina alla fine del secolo un deciso spostamento della distribuzione del reddito a favore dei profitti (più particolarmente, delle rendite finanziarie) e a svantaggio dei salari. Intanto l’intero assetto dell’economia è cambiato sotto l’impulso di una mercatizzazione dello spazio mondiale e di un progresso tecnologico che hanno favorito la libertà di movimento e di iniziativa delle grandi imprese. Oggi lo stesso significato di produzione e di produttività è in gioco. E con esso, lo stesso significato sociale del lavoro. È in gioco, insieme alla debolezza del salario, lo stesso senso della crescita, contestato dalla degradazione ambientale. Sul terreno dell’economia sociale, è in gioco l’antico venerato aforisma: crescere per "poi" distribuire. Di fronte all’eternizzazione di quel "poi" e alla crescente insignificanza della crescita, ci si può chiedere se per caso la sequenza dei due termini non debba essere invertita.

Un esercito di precari fragile e malpagato

di Aldo Nove

Prima che Bauman, nella sua inesausta pletora di libri "liquidi", ci consegni quello sul salario, possiamo provare a immaginarci cosa, nel nostro mondo liquido, vi corrisponda: il salario nel 2008 è indubbiamente speciale. Ha riflessi chimerici, è reso squassante dalla sua imprevedibilità, dalla sua incertezza. "Se mi pagano" è la chiave di volta (di un edificio pericolante da troppo) del discorso sul salario oggi. Mettiamo il lavoratore a termine, a progetto: un laureato, magari in materie umanistiche, magari giovane e dunque quarantenne, a cui viene commissionato un lavoro. In Italia parlare di salario equivale, per strana convenzione, a mettere in pubblico i propri panni sporchi: non è educazione, non si fa, ma cosa ti viene in testa. Quindi il "giovane" laureato quarantenne di cui sopra spesso non sa neppure quanto verrà pagato. È maleducazione. Chiederlo e saperlo. Valgono le approssimazioni allucinatorie del gioco televisivo a premi in denaro: "C’è una bella sommetta" (topos del linguaggio di Mike Bongiorno secondo Eco), "I soldi ci sono", fino al paramafioso "Non ti preoccupare" sono alcune delle risposte alle timide domande sulla consistenza del salario di chi il lavoro, per necessità, lo fa "alla cieca", o quasi.

C’è qualcosa di amorale, di atrocemente comico in tutto questo: modulandosi addirittura, per scherzo epocale, sul rapporto sentimentale: chi ti dà un lavoro in fondo ti sta facendo un grande favore. Lo fa quasi per amore, sceglie te tra migliaia di altri e dunque non è bello stare lì a parlare di cifre. Chi chiede informazioni su quanto verrà retribuito per un lavoro contravviene alle regole dell’etichetta del precario: se sapesse, che precario sarebbe? Così si sa che si dovrebbe essere pagati. Una certa cifra, in un certo modo, in un qualche tempo. "In un certo modo" significa che buona parte del tempo del neosalariato viene spesa inventando i modi (in rapporto al tempo, alle circostanze) attraverso i quali il lavoratore avrà ragionevoli speranze di recuperare quanto gli è dovuto o meglio e forse generosamente elargito: si tratta di inventare le forme di recupero di crediti che, per reattività pavloviana, spesso perdono credibilità, riducendo l’intero mondo del lavoro (la sua percezione soggettiva) a una sorta di stagismo universale.

Condizione sfibrante e involutiva. Sono in tanti, a quarant’anni, a sentirsi sotto la pressione delle ugge della "mancetta": benevoli datori di lavoro chissà se benevoli lo saranno davvero, al momento dell’erogazione, posto che un’erogazione vi sia. I bamboccioni sono in fondo adulti obbligati a restare adolescenti se non bambini dall’assoluta mancanza di serietà retributiva in un mercato del lavoro che scherza con i rapporti umani e lo scherzo, da un’intera generazione, non si capisce se avrà fine domani o tra vent’anni o mai. Ho sentito dire (tante volte, troppe) che il lavoro "retribuito", spesso, è articolato in due poderose fasi, la seconda delle quali, fondamentalmente inedita, è la principale, più delicata e sostanziosa. La prima consiste nel lavoro, la seconda nell’attuazione della difficile retorica di telefonate, sapientemente (e nevroticamente) studiate per far sì che il lavoro volontario si trasformi in lavoro salariato. Generalmente si attende la scadenza effettiva del tempo massimo di pagamento (supposto che sia stato stabilito: altrimenti è tutto più complicato, si procede per approssimazione) e allora si inizia a telefonare per ricordare che si dovrebbe essere pagati. Nella mia esperienza di non specialista del lavoro ma di semplice quarantenne a contatto con altre persone sento ogni giorno persone lamentarsi di questa difficile, esasperante realtà lavorativa. È umiliante elemosinare quello che ti spetta. Ti fa sentire davvero un bamboccione. Una strana commistione tra assenza di autostima e voglia di riscatto per riuscire a porsi in una "dialettica lavorativa" che possa semplicemente, realmente definirsi tale. Nella prassi quotidiana, uno stillicidio di aspettative sotto forma di inutili attese al telefono, di appuntamenti mancati, di verifiche quotidiane del proprio conto corrente per vedere se magicamente "quei soldi" sono poi arrivati. "Quei soldi" (e dunque non altri) sono la formula del frastagliamento di chi, per arrivare a un salario degno di essere definito tale, e che garantisca quindi la sopravvivenza, deve sommare diversi micro salari. Come delle caricature di imprenditori al gradino più basso della scala gerarchica, i lavoratori di questo tipo (spesso laureati) accumulano ansie inaudite in un vissuto del tutto probabilistico della propria realtà salariale. Questa è la cifra principale del precariato: aver fatto un lavoro (una serie di lavori), dover avere di conseguenza una certa cifra sul conto corrente e ritrovarsi a chiedere prestiti (generalmente, ovviamente ai genitori) perché quella cifra (quella somma di cifre) non c’è, va "sollecitata", forse arriva domani e così per mesi. Il pericolo maggiore è che nell’Italia del 2008 si arrivi a un’assuefazione. Psicologicamente è già avvenuto. Ma solo psicologicamente e per fortuna. C’è un margine di resistenza oltre il quale non è possibile andare, ed è quello della corporeità: detto in altre parole, fino a che si mangia si può scherzare. Si può scherzare con la dignità spazzata via del lavoratore, con la sua riduzione d’ufficio a pedina insignificante della contrattazione. Ma oltre un certo livello non si scherza più. Quel livello è quello della fame. La fame vera. In Italia non ci siamo ancora arrivati. Ci si "arrangia": a scapito della propria dignità, in un sogno guasto riempito di telefonini e distrazioni a basso costo da mondo incantato per adulti. Ma appena i "bamboccioni" (è la terza volta che lo scrivo: scusatemi, ma è un termine di una violenza, di un’ottusità micidiale, a suo modo, satanicamente, geniale) cominciassero a stare davvero male, a non avere di che mangiare, salta tutto. Si chiama rivoluzione e la fanno direttamente le pance. Prima c’è il limbo dell’attuale condizione salariale.

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